domenica 7 dicembre 2014

Incipit


Scrivo poesie da una decina d’anni, che non sono né tanti né pochi. Ho deciso di pubblicare su questo blog le mie composizioni se, per pura ipotesi, a qualcuno possano interessare.
Forse c’è un motivo per cui potrebbero interessare a taluni.
Il problema è che mi sono accorto d’essere in minoranza. Cercherò di spiegarmi. Vado, con gli argomenti, nell’ordine nei quali me li sono posti.
Quando, lentamente, con grande pudore, ho deciso di fare il salto nella poesia mi sono chiesto cosa fosse per me una composizione poetica. Mi sono chiesto che forma dovesse avere una poesia, a quali regole dovesse rispondere per non essere solo l’esternazione di un’acne adolescenziale, oltretutto questa è un disturbo giovanile che non ho mai avuto
Non vi stupite, non sono un letterato: ho una formazione culturale e una forma mentis di architetto per la quale, dinanzi a ogni cosa, mi chiedo: cos’è? di cosa è fatto? che forma ha? come funziona? cosa significa? come lo posso usare? et cetera…
Partivo da alcune “ frasi poetiche ” (così come le avevo definite) e dunque occorreva dare loro una forma interessate e per me significativa.
Sono addivenuto ad alcuni punti definitivi del concetto di composizione poetica. Nota bene: non di poetica o di poesia.

Punto primo. La poesia è formata da versi che hanno un certo numero di sillabe. O tutti i versi hanno lo stesso numero di sillabe oppure possono essere alternati versi di lunghezza differente fra loro secondo una regola che attiene al punto dell’architettura compositiva della poesia.
Punto secondo. I versi hanno una relazione, secondo una regola ritmica, che si definisce o rima o assonanza o consonanza. Altrimenti si chiamano versi sciolti.
Punto terzo. Il significato delle parole deve essere intelligibile e formare delle proposizioni di senso compiuto.

Decisi che avrei scritto secondo questi tre principi e che per me poesia fosse solo qualcosa che rispondesse a quei tre punti. Lo è tuttora e ne sono sempre più convinto.
Va da sé che mi riferisco alla poesia scritta in lingua madre: nelle traduzioni è più importante mantenere il carattere semantico, materico, di una parola o il suo valore d’immagine che comprimere tutto nella sillabazione o nella rima o nel numero complessivo dei versi. Se si può è meglio, ma senza rigidità controproducenti, anche perché la traduzione non può che essere sempre parziale tradimento, dipende dai casi: una traduzione epigrafica è meglio sia letterale, per un autore moderno si può ardire di più anche nel suggerire. Problemi da traduttore in cui non entro.
Faccio alcune considerazioni sulle tre regole.
Punto primo. Riguardo al numero delle sillabe, a parte che non conosco lingua o cultura nella quale scrivere in versi non comportasse un conteggio delle sillabe, mi spieghereste perché non tenendone conto si va a capo? Per risparmiare sulle virgole? Quello che si scrive in versi spezzati potrebbe essere messo di seguito ottenendo una prosa o aulica o elegante o strana, quello dipende dalle capacità. D’altronde le tecniche di elisione o fusione di vocali nei dittonghi o la separazione negli iati o fra vocali finitime permettono una notevole libertà nel conteggio.
Punto secondo. L’italiano è una lingua stupenda, che si apprezza davvero solo scrivendo, sia in prosa o sia in poesia. Nella sua evoluzione storica ha assunto alcune connotazioni tipiche. È una lingua assiduamente sillabica: in italiano ogni sillaba va scritta e pronunciata, non ci si può ‘ mangiare le parole ’, se qualcosa è scritto va letto così com’è. Ha perso rispetto al latino (e al greco, intesa come lingua letteraria di sostrato) le aspirate e le sillabe tonali. Non ha cioè sillabe lunghe o corte, che presuppongono una tonalità nella pronuncia e una durata maggiore nel tempo, ha solo vocali toniche, o sia sulle quali cade l’accento. E se anche mantiene un qualche retaggio noi non siamo più in grado di rendercene conto.
È molto difficile e controverso cercare di tradurre in accenti tonici le lingue tonali. La regola della poesia classica non prevedeva la rima ma aveva schemi di ritmica tonale. In italiano è impossibile. La ritmicità si è spostata dall’interno del verso al rapporto tra i versi nello schema architettonico della composizione. Così hanno fatto i padri della poesia italiana. Del resto anche qui le scelte sono moltissime: rime alternate, distici, terzine ecc… Non solo: nulla vieta di inventarne di nuovi o darsi la propria regola e vedere cosa succede e se funziona. L’importante, come in tutte le regole autoimposte, è di rispettarle e di essere coscienti quando si fa un’eccezione  che essa ‘ conferma la regola ’ e non sia una serie di eccezioni che diventano la negazione della regola di premessa.
Sull’ultimo punto non voglio spendere nemmeno una parola. Scrivere frasi senza senso o talmente aggrovigliate da non essere comprensibili nel puerile tentativo di apparire sperimentale o affascinante è un problema di chi così decide, non mio. Unica eccezione che si può forse ammettere è la composizione proposta dai dadaisti la quale consiste nel mettere lettere o parole alla rinfusa in un sacchetto e poi estrarle vedendo ciò che il caso o lo spirito sciamanico dell’arte ne ricava. Procedimenti analoghi ci sono nella pittura informale. Ma appunto sono casi limite. Forse dei giochi, come il telefono senza fili oppure lo zapping ad alta velocità (che una volta si faceva con la radio).
Potrei inserire anche un ulteriore punto, ma convengo che è più una mia preferenza che un discrimine: una composizione poetica deve avere una forma. In poesia come in architettura abbiamo composizioni chiuse (che ‘si guardano’) e composizioni aperte verso il paesaggio. Possono avere parti chiuse e parti aperte in relazione fra loro. Ma tutte hanno un inizio, una struttura interna, delle parti e una fine: poesie asintotiche non ne ho mai viste. Anche qui le forme sono tante e si possono concepirne sempre di nuove.
Per ciò che concerne il contenuto della poesia, o poetica, penso che la poesia può parlare di tutto ma di nulla di obbligatorio, credo che un buon punto di partenza per ulteriori riflessioni sia affermare, come io faccio, che la poesia è un modo che obbliga scrivere con precisione, almeno da una certa età in poi, e che consiste nel guardare ciò che si vede normalmente con uno sguardo e occhi diversi.

Concludo dicendo che potrebbe essere, per un caso dadaista, che qualcuno trovi una bottiglia che galleggia sull’oceano del web e che contiene questo blog. Sarebbe il benvenuto se volesse dare il suo contributo. Le regole sono le stesse che consigliavo quando insegnavo kenjutsu (spada giapponese): massima cortesia per il compagno di pratica, massima educazione, spirito costruttivo, insomma tutte quelle cose che di solito non si trovano sul web e che non si usano più nella vita.
Questo primo post è parecchio formale, me ne rendo conto, ma è anche il primo e non mi andava di dare subito il cattivo esempio. Penso che la seriosità non abbia niente a che vedere con l’educazione o la cortesia e nemmeno con le buone idee. Un requisito mi pare invece non eludibile, anche per lo sviluppo del confronto: la condivisione, anche critica e dialettica, dei tre punti che ho spiegato, sia se siete dei lettori e amanti della poesia sia e soprattutto se, come me, siete poeti per diletto e vocazione. In particolare se non condividete il punto primo girate al largo.
Ultima precisazione dovuta per l’eventuale naufrago che s’imbattesse in me. Io non sono nessuno, davvero: non posso aiutarvi a pubblicare, non frequento ambiti editoriali o promozionali, non ho nulla da insegnarvi, non posso darvi consigli per diventare scrittori di successo (e nemmeno senza successo). Mandatemi le vostre riflessioni e le vostre idee, non tutte le vostre poesie perché questo è il mio blog e ci stanno le mie. Mandatemi, delle vostre composizioni o di altri, solo quelle che sono esemplificative di ciò che state dicendo. Semmai mettete il link dove si possono leggere le vostre poesie o i titoli delle vostre pubblicazioni.