giovedì 22 ottobre 2015

Marina Ivanovna



Vi devo confessare una cosa. Cambio il desktop ogni mese, o meglio ogni segno zodiacale. Testimone del mutarsi delle stagioni è una bella donna, di quel segno ovviamente. I requisiti per entrare nella mia compilation sono solo due (oltre al fatto di far parte del sesso femminile ed essere di gradevole aspetto): essere del segno in corso e starmi simpatiche, se sono belle è meglio. In genere metto delle attrici, perché sono stato a lungo un appassionato di cinema, quando era ancora vivo, poi non essendo un necrofilo ho lasciato perdere. In altri casi sono state cantanti o artiste in genere. Ad alcune ho dedicato una poesia.
Il segno appena passato è la Bilancia. Sul mio desktop, ogni volta che aprivo il computer mi appariva il bel volto di una venticinquenne Marina Cveateva.



L’ho un po’ elaborato dalla foto originale perché non volevo un desktop in bianco e nero e in una immagine così scura



ed è venuta straordinariamente simile a un altro mito del cinema e anche mio: l’amabile Setsuko Hara, così come campeggia nella vetrina del fotografo, avvolta dalla neve di Hokkaido, ne “ L’idiota ” di Akira Kurosawa, del 1951, tratto dal romanzo omonimo di Dostojievski. 



Setsuko Hara mi ha deliziato col suo profilo per tutto il segno dei Gemelli del 2014.



Ora entro nel vivo dell’argomento di questo post.
Preliminarmente vorrei dire che ritengo molto più ragionevole la traslitterazione anglosassone dal cirillico russo in Tsvetaeva, ma il mio parere non conta nulla.

A Marina Ivanovna Cvetaeva ho dedicato questa poesia nella raccolta " Epea Pteroenta ”.

La poesia deve parlare di sole,
cuori, fiori e amori,
mari, onde e vele.

“ Ma noi dobbiamo vivere il nostro tempo!
Mostrarne i misfatti,
prendere parte e campo! ”.

Va bene, ma perché citando nomi,
rovine di memorie,
città, date e poemi?

Una strada, un momento di luci,
canta ‘ ponti e barriere ’,
‘ i luoghi più semplici ’.

Sei morta più giovane, Marina,
mandami pure al diavolo
ma ascoltami, Ivanovna,

sono parole tue, è la tua lezione,
è come il tuo riso in faccia ai passanti.

(schema: esametro Aba Cdc Efe Ghg Ili MN)

Marina Ivanovna Cvetaeva nacque a Mosca il giorno 8 di ottobre del 1892 (Bilancia appunto) e morì suicida il 31 agosto del 1941 a quarantanove anni.

Quello che dico nella poesia è ciò che penso dei versi che amo di più di Marina.
Anche qui il mio omaggio vuole esaltare la versificazione più immediata e apparentemente spontanea di Marina, quella che francescanamente si definirebbe ‘ semplice ’.
La chiamo Marina perché amo le donne dei miei desktop ed, essendo morta, ella è entrata nell’immortale mondo dei miei miti e dei miei sentimenti. E mi posso prendere delle affettuose confidenze.
Nella poesia ci sono delle citazioni di stilemi di Marina che lascio a voi di ritrovare nei versi che riporterò.
Faccio notare che Cvetaeva scriveva in versi rimati, come facilmente potete trovare nei siti che hanno il testo in russo a fronte. Lo so: sto diventando noioso con questa storia della metrica, ma per me è importante perché la poesia sia poesia.
Vi voglio solo citare dei versi che per me rappresentano l’idea della poetica di Cvetaeva così come io la percepisco, tenendo ovviamente presente che nella vita di un autore ci sono tanti momenti e derive esistenziali che poi incidono fatalmente sulla sua maturazione d’artista.
Io non riesco a fare un discorso formale in letteratura: mi girano subito i coglioni. Non so, mi mancheranno le basi, ma ho un approccio sentimentale alla poesia. La poesia per me è una donna di cui ci s’innamora perché è diversa dalle altre.
È meglio se vi dico i versi e vi spiego perché mi piacciono.

Voglio mettere solo quei versi che mi rapiscono e non tutta la poesia, che del resto è facile reperire in rete o nei libri.
Mi avvalgo del volume: Marina I. Cvetaeva, “ Poesie ”, edizioni Feltrinelli, 4° ristampa 2007, traduzione di Pietro A. Zveteremich.

Voi sapete che Cvetaeva fu una poetessa assai precoce: e le sue prime poesie sono del 1910. Questi versi sono del maggio 1913.

“ Ai miei versi scritti così presto,
che nemmeno sapevo d’esser poeta,
scaturiti come zampilli di fontana,
come scintille dai razzi. ”.

Qui mi piace il paradosso di descrivere i suoi versi come spontanei, ma di usare due immagini di meccanismi artificiali, che appaiono però subito come naturali. Devo dire che quando nel film di Kurosawa viene la scena della pattinata sul ghiaccio, in maschera e con i fuochi artificiali, ho subito pensato a questi versi.

Dal ciclo Insonnia dei versi del 17 luglio del 1916 a Mosca:

“ Di luglio il vento mi spazza la strada,
e c’è musica a una finestra – appena.
Ah, soffi ora il vento fino all’alba
oltre le pareti sottili del petto – dentro. ”.

Mi richiama la sensazione di una notte estiva, nella quale dopo la calura del giorno, guardando il cielo nero e alfine rinfrescati dall’aria, che finalmente si alza, si sente una partecipazione al respiro cosmico.

Questa poesia del 1918 la metto tutta poiché è una specie di manifesto di quello che per me  è la poetica di Cvetaeva.

“ La spensieratezza è un caro peccato,
caro compagno di strada e nemico mio caro!
Tu negli occhi m’hai spruzzato il riso
e la mazurca m’hai spruzzato nelle vene.
Poiché m’hai insegnato a non serbare l’anello,
con chiunque la vita mi sposasse.
A cominciare alla ventura – dalla fine,
e a finire – ancor prima di cominciare.
A essere come uno stelo, ed essere come l’acciaio.
Nella vita, in cui così poco possiamo,
a curare la tristezza con la cioccolata
e a ridere in faccia ai passanti. ”.

Si possono trovare versi così femminili? Io mi immagino, non so perché, Marina seduta ai tavolini fuori da un caffè che beve la cioccolata con le sue amiche, e ridono di una felicità senza motivo, loro connaturata. Forse perché mi dà fastidio pensarla brufolosa di cioccolato in tavolette in quantità industriali e in crisi da mestruazioni. E poi rimando alla mia poesia. È la stessa Marina del mio desktop: ventisei anni.

Tratti dal ciclo Versi per la figlia gli ultimi tre versi di un componimento in cui traspare la complicità fatta di un destino comune fra Marina e la figlia Alja, del 24 agosto del 1918.



“ Una volta mi hai detto: ‘ Compramele! ’
con un brillar d’occhi alle torri del Cremlino.
Il Cremlino è tuo dalla nascita. Dormi,
mia primogenita chiara e terribile. ”.

Quanta verità! Riflettiamo che i monumenti del nostro paese, della nostra città sono nostri, sono l’aspetto artistico della nostra interiorità, dell’eredità di chi quel paese ha costruito. Sono ciò di cui siamo fatti. Nei “ Sette samurai ”, sempre di Kurosawa, a un certo punto Kikuchyu (Toshiro Mifune) salva da un incendio un bambino e resta inebetito tenendolo in braccio, quando gli chiedono perché del suo atteggiamento risponde: “ Questo sono io! È quello che è successo a me! ”. Svela d’essere un contadino che decise di farsi passare per bushi per combattere le ingiustizie contro il popolo. I nostri monumenti, le opere di qualunque arte del nostro passato di popolo e nazione sono quel bambino, siamo noi, è quello che è successo a noi.

Da Alba sulle rotaie del 12 ottobre 1922.

“ La nebbia ancora ci risparmia,
ancora avviluppato nei teloni
dorme il granito dei carri merci,
non si vede la scacchiera dei campi... ”.

In questa stanza si sviluppa una certa straniazione dalla realtà, che non esiste finché non ne facciamo parte, lanciando l’esca della nebbia, evidente motivo di straniazione, ma in verità facendoci sentire l’immobilità di quello che un momento dopo sarà una febbrile, consueta, attività.

Il Poema della barriera del 23 aprile 1923.

“ Ma fino a quando il deserto della gloria
non avrà tappato le mie labbra,
io canterò i ponti e le barriere,
io canterò i posti più semplici.

Ma fino a quando nelle reti
Non mi sono impigliata – delle tortuosità della gente,
io prenderò – la nota più difficile,
io canterò – l’ultima vita!

Il lamento delle ciminiere.
Il paradiso degli orti.
...
Et cetera... ”.

I luoghi della vita, i posti dove succede tutto, dove è la storia senza nomi e date. Rimando alla mia piccola composizione. Sono sicuro che Marina lo permette, senz’altro ridendo ma lo permetterà. E mi perdonerà.

Da Rotaie del 10 luglio del 1923.

“ In una certa rigatura da note
Poltrendo a somiglianza di lenzuola –
I terrapieni della ferrovia,
la tagliente azzurrità delle rotaie!

...

Spanditi come inutile aurora,
rossa inutile macchia!
...Le giovani donne talvolta
Sono allettate da questi terrapieni. ”.

" Il crepuscolo di Tokyo " di Yasujiro Ozu, 1957, Ineko Arima

Da I lettori di giornali, scritto a Parigi il 24 agosto del 1936.

“ ...
 Lascia stare, ragazza!
                                       Metterai al mondo
un lettore di giornali.

...

Che sono per questi signori
il tramonto oppure l’alba?
Divoratori di vuoto,
lettori di giornali!

...

Chi i nostri figli
fa marcire nel fiore degli anni?
I miscelatori di sangue,
gli scrittori di giornali! ”.

Sono passati ottant’anni? Questi anni sono tragicamente simili a quelli, con in più l’aggravante del suffisso tele-. Il corsivo è dell’autrice.

Versi datati 11 settembre 1936.

“ Finalmente ho incontrato
chi è necessario – per me:
chi inoltre ha una mortale
necessità - di me.

Ciò ch’è per l‘occhio l’arcobaleno,
per le erbe – la terra nera,
per l’uomo è la necessità
d’un essere umano - in lui.

Per me della pioggia e dell’arcobaleno
e della mano – più necessaria
l’umana necessità
di mani – nella mia mano. ”.

Concludo con questi versi che sento molto vicini perché parlano con la dovuta ambiguità di una presenza dentro e fuori di sé. Quando qualche imbecille mi prende per avvinazzato, se nelle mie composizioni parlo di ‘ ebbrezza ’, così , come ho già avuto modo di dire, se parlo di una donna non è detto che sia in carne e ossa. Forse è un essere che mi abita, forse mi riferisco a una categoria evolutiva superiore, immaginata in una donna. Qui Marina lavora all’uncinetto: dentro e fuori definizioni che riportano, le une alle altre, a una presenza angelica di sé stessi, forse a qualcuno di esterno che vogliamo dentro di noi, forse a noi come un ricettacolo di chi può vivere solo nella nostra interiorità. Ma una cosa non esclude l’altra: il calore fisico delle mani degli altri è reale in questi versi, ma altrettanto lo è questa presenza intima scoperta all’improvviso.

Parlando della amata Marina Ivanovna volevo mostrare come vivo la poesia, come mi sembra giusto perché, ogni volta che si rilegga, sia sempre una ninfa di acqua sorgiva e riesca a smuovere quello che di nobile e vitale c’è in tutti noi.

E quanti versi ho dimenticato!