domenica 10 gennaio 2016

Scrivere con precisione



Ho affermato, credo, che mi piace comporre poesie perché significa scrivere con precisione. In ciò mi riferivo al confronto con la prosa, ma lo tengo per vero in assoluto.
La forma poetica sembrerebbe, a tutta prima, una scrittura in cui l’animo è libero di librarsi a suo piacimento nel mondo immateriale della concezione. Ma chiunque abbia scritto dei versi si rende conto che lo spazio è limitato (o dovrebbe rendersene conto). Non lo spazio della pagina, bensì lo spazio semantico oltre il quale la poesia non è più poesia.
Scrivere in poesia non è parlare e parlare e ogni tanto andare a capo. Ogni verso deve avere un suo peso specifico all’interno della composizione e tutta la composizione deve tendere a un risultato.
La prima implicazione di questo assunto non è, come sembrerebbe logico, la scelta delle parole, che riveste un ruolo comunque notevole (ma mi sembra quest’ultima una considerazione abbastanza inane). La prima evenienza dello scrivere poetico è scegliere oculatamente cosa scrivere.
Non mi sto riferendo agli argomenti ma al modo di comporre.
Facciamo un esempio palmare. Decidendo di tentare di descrivere un’emozione che si è provata, se cerchiamo di spiegarci in cosa consiste ci troveremo in un affastellarsi di considerazioni, in parte logiche in parte illogiche, separeremmo quello che si può analizzare in modo discorsivo e ciò che si può invece solo sperimentare. Ogni considerazione ci porterebbe ad altre riflessioni o sensazioni. Parleremmo per ore.
Il problema è che scrivere una poesia non è come fare una seduta dallo psicanalista, altrimenti ci porremo sempre o in uno stato di ricettività esasperata per ogni cosa o in una selettività che inaridirebbe tutto.
Soprattutto saremmo in uno stato di inferiorità permanente. Ma non verso il lettore, non c’è e non mi interessa instaurare un rapporto gerarchico con chi mi legge, che peraltro non pende dalle mie labbra. Lo saremmo noi nei confronti della nostra stessa poesia. La nostra voglia di esternare ciò che proviamo ci renderebbe eternamente succubi del mezzo col quale cerchiamo di ottenere il nostro scopo comunicativo.
La cosiddetta ispirazione consiste in una serie di ragionamenti molto veloci, più della velocità normale del nostro cervello, con la quale analizziamo, scartiamo, approviamo, eccetera tutti gli aspetti della questione, poi, in virtù di una capacità di sintesi poetica, decidiamo quali concetti e quali frasi possono in modo il più sintetico e sintattico illustrare meglio ciò che proviamo.
Questa è, credo, la prima fondamentale scelta di una composizione poetica. È per questo motivo che, di solito, in poesia gli espedienti della narrazione sospensiva della prosa non funzionano, o non così bene. Se scrivo un giallo non dico subito che l’assassino è il maggiordomo, e anche lo dicessi devo tenere il lettore facendogli scoprire come l’investigatore c’è arrivato. Persino se scrivo di un amore devo dilungarmi spiegando come ciò sia stato possibile, anche se la risposta è nella canzone di Ernesto Murolo: “Con l’amore è facile tutto il difficile: se ha da succedere, succederà” (ho tradotto, sorry).

Apro e chiudo una parente, come diceva Totò (per i non italiani: è un gioco di parole che sostituisce parentesi, il cui senso sta nei verbi aprire e chiudere).
Il figlio di Ernesto Murolo, Roberto, è stato per me il miglior interprete della canzone napoletana classica, quelle del padre o di Salvatore Di Giacomo o Libero Bovio per capirsi, perché aveva capito che queste canzoni vanno cantate con un filo di voce e con molta eleganza. Il cantarle a voce spianata le rende una parodia della lirica, mancandole tutto l’apparato compositivo musicale dell’opera, e nemmeno va cantata  ‘ alle vongole ’ che fa subito festa paesana. La qualità poetica del testo e la vena melodica meritano di essere valorizzate con un’esecuzione graziosa ed equilibrata.

Nella poesia spesso è un verso che irrompe senza preambolo o presentazioni che scatena la fascinazione. Quel verso è stato scelto come simbolo dello scopo della composizione. Poi, come diceva Ungaretti, si prova, si riprova, si sente che effetto fa all’orecchio, si sistema... ma dopo.

Quando scrivo una poesia, e descrivo solo la mia prassi consueta senza voler affermare che sia giusta o l’unica, dopo l’elaborazione mentale, detta ‘ispirazione’, metto giù delle frasi, spezzandole in una specie di endecasillabo automatico. Questo è un’ottima misura per la lingua italiana poiché produce delle piccole proposizioni compiute. Poi se il senso compiuto della proposizione è superiore alle undici sillabe convenzionali (per elisione, crasi o sinalefe, dialefe, sineresi, dieresi ecc...) c’è l’inarcatura al verso successivo, quella che i fighi chiamano enjambement. Prima di far tornare tutti i versi nella metrica scelta mi rendo conto di quali sono i decisivi per il fine poetico, per l’insieme o per le parti in cui è eventualmente divisa la composizione. Poi identifico quelli propriamente descrittivi. Infine verifico quelli inutili.
A quel punto la poesia è fatta. C’è solo da far tornare la metrica e dedicarsi (ma questo continua anche nelle revisioni) alla ricerca delle parole più belle o più precise.

Si vede dunque che la scelta delle parole, da molti considerata l’essenza della poesia, in sé non basta, è come una scheggia impazzita (una monade dicono sempre i fighi, che non viene da mona, lo dico per i non italiani): non ha un verso (in senso vettoriale), non può esprimere la sua forza perché è come non sapesse dove appoggiarsi.

Si scopre che l’anima, l’atomo della poesia è il verso e non la parola: non è poco se ci si arriva.

Se non ci si arriva, potrà essere utile il ricorso a un bellissimo film di Dino Risi: “In nome del popolo italiano” del 1971, con Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman.
Tognazzi è il giudice Bonifazi che indaga sulla morte di una ragazza e sospetta di un imprenditore rampante, l’ingegner Santenocito, interpretato da Gassman. Santenocito ha il vezzo di parlare, è per di più un logorroico, con parole astruse e intricate anche per esprimere concetti semplici. Quando il giudice glielo fa notare si giustifica dicendo che in certi casi è necessario e anzi non se ne può fare a meno. Una battuta del dialogo dice, più o meno:
Santenocito: “Ecco, per esempio, lei come renderebbe il concetto di desimplicizzato? Cosa direbbe?”.
Bonifazi: “Complicato...”.

Se si usano parole ‘desimplicizzate’ si fa di sicuro colpo. Se si fa poesia si ha bisogno di un verso, solo allora le parole usate potranno esprimere tutta la loro valenza coinvolgente e daranno la fascinazione, il rapimento, lo stupore, la contemplazione.
È un’altra regola dell’architettura della poesia, derivata dal principio della gerarchia delle scelte, decise liberamente le regole compositive tutto il resto segue e si può ammettere la famosa ‘eccezione che conferma la regola’.
È questo ciò che intendo con scrivere con precisione la versificazione poetica, ed è in questo senso che la paragono alla composizione architettonica. Il suo processo di costruzione, che impegna tutti i livelli mentali: intuizione, espressione, analisi, formalizzazione, abbellimento, è lo stesso del progetto architettonico, ma penso lo sia anche della composizione musicale o di altre forme di composizione che non conosco.
Io definivo la composizione architettonica, per l’ampiezza delle variabili che sussume, una forma di raffinatissima enigmistica e lo sforzo di padroneggiarla e giungere a un risultato soddisfacente è la bellezza del fare artistico.
Può sembrare difficile ma che gusto c’è nel fare solo le cose semplici, facili e che non richiedono sforzi?
Pubblico a mo’ d’esempio una poesiola tratta da “ Lykauges ” nella sezione canoni.
In corsivo ho messo i versi cardinali, in grassetto l’immagine generatrice, gli altri sono introduttivi (i primi due) e descrittivi. I versi dal 4° al 7° si concatenano legando le due parti della composizione (vv. 1-5; 6-10) per mezzo delle parole forma e figura e dei verbi cambiare, trasformare, trasfigurare.

C’era una poesia scritta a matita
su di un piccolo pezzo di carta
che, spinta dal vento, saliva in alto
fino a trasformarsi in una nuvola
che muta forma ogni momento.
Così le poesie si trasfigurano,
salgono in cielo e si cambiano
in preghiere e invocazioni,
in cantici, a volte in una favola,
in vapore, bestemmie e illusioni.

(schema: endecasillabi AABCBDDECE)


La scienza poi ci insegna che in caso di dubbio ci viene in aiuto la matematica.