Lettere d’una cortigiana del
XVIII secolo
Prima
raccolta. Lettere
dal 24 maggio al 1 agosto del 1752.
Questo nuovo lavoro in prosa, concluso all’inizio
dell’autunno del 2011, racconta le avventure di una cortigiana che ha la sua
casa di divertimenti a Milano nel XVIII secolo. È un epistolario di lettere che
Isabella, il suo nome d’arte, scrive come memorie per un lettore del futuro, che
ne sia giunto fortuitamente in possesso. In esso racconta le avventure, sue e
di un piccolo gruppo di amici, come agenti segreti al servizio dell’Impero
Absburgico.
È pensato come formato da raccolte successive che,
un po’ come nei romanzieri di gialli, compongano una saga. Avventure diverse
per gli stessi personaggi.
Lo stile è ripreso dalla memorialistica degli
avventurieri del XVIII secolo come Casanova o Da Ponte. L’idea è quella
dell’incrocio fra vicende segrete e storie galanti con qualche riferimento vago
a De Sade.
La scelta del settecento è determinata dalla
raffinatezza che prediligo di quel secolo, in cui nasce tutto il mondo
contemporaneo. Non a caso la grande passione di Isabella sono i mobili Luigi XV
che conosco molto bene e amo come il più bello della storia dell’arredamento.
Ho scritto alcune raccolte di
lettere e ne scriverò di successive, ma non so dove questo potrà portarmi.
Alla fine di ogni lettera, Isabella presenta una
breve composizione in poesia nel suo stile tendenzialmente post marinista e
arcadico.
Vi presento la prima lettera del 24 maggio del 1752
come aperitivo.
Prima lettera della prima raccolta
Milano, 24 maggio 1752
Voi che leggerete queste lettere, chiunque voi siate, o uomo o donna,
sappiate che le ho scritte per alleggerirmi la coscienza ora che, per l’età,
son vicina al momento in cui Nostro Signore mi chiamerà a sé e al suo giudizio.
Sto
scrivendo nei giorni in cui Bonaparte entra a Milano, ho sessantatre anni e la
mia vita s’è svolta durante la metà del secolo che si spegne. Io non so cosa
avverrà di quanto annuncia il generale
Bonaparte e si dice in Francia, o sia se ci sarà da vero un nuovo mondo o se
tutto tornerà come era prima, tuttavia mi sento d’affermare che se non sarà
vera la prima ipotesi non vi saranno giustificazioni per le violenze che
accompagnano la Rivoluzione.
Fra
l’altro il generale Bonaparte e io siamo vicini di casa visto che si è
trasferito nel novissimo palazzo Serbelloni, in contrada di Porta Orientale.
Prima,
o vero quando fui giovane, non era male la vita però. Certo oggi non la si
pensa più come a quei tempi, ma per chi, come me e i miei amici, visse
intensamente quegli anni, non è possibile reprimere un senso di nostalgia. Ma
l’età mi sta facendo perdere il filo di quanto devo dire.
Avrete
notato che la data di questa lettera è di molto precedente all’entrata di
Bonaparte a Milano, che avvenne il quattordici del mese di maggio dell’attuale
anno 1796: ho deciso infatti che narrerò i miei casi datandoli al tempo in cui
avvennero e ciò per vostro agio.
Immaginate
dunque ch’io sia una bella ragazza di diciannove anni, ho i capelli neri, gli
occhi bruni, e una carnagione chiara e rosata. Sono molto ben vestita a cagione
del mestiere che svolgo: è un anno infatti che ho aperto una casa di ritrovo
per uomini e belle ragazze. Voglio solo ragazze oneste e di buona famiglia e
uomini distinti che sian disposti a pagare di conseguenza. In casa mia si
svolgono pranzi e cene, feste mascherate, incontri notturni o anche durante il
giorno, in piena riservatezza. La sera si festeggia sempre con musica o piccole
rappresentazioni di teatro. Io tengo di persona almeno un tavolo di faraone per
il gioco, chi vuol puntare più forte è libero di mettersi su un altro tavolo e
alzar il banco. Son giudicata una donna molto bella e ho avuto parecchi amanti,
alcuni fissi altri d’occasione, ma sono libera e mai stata sposata.
Ma
innanzi tutto devo presentarmi debitamente e raccontare un po’ la mia storia.
Mi chiamo Anna Maria Somaschi ma tutti mi conoscono per Isabella. Son nata qui
a Milano il primo giorno di maggio dell’anno 1733. A dirvi il mio albero
genealogico si fa molto in fretta. La mia bisnonna si chiamava Giovanna, detta
la matta, ma non era folle, era solo un po’ bislacca. Giovanna e basta, o sia non
aveva un cognome, per lo meno nessuno gliel’aveva mai chiesto né lei l’aveva
detto a veruna persona. Ebbe un figlio che abbandonò alla ruota dei reverendi
Padri Somaschi qui in città. Là il figliolo fu battezzato Gerardo, perché lo
ricevettero il giorno di quel santo.
Quando
Gerardo diventò grande e lasciò il convento per lavorare, chiese e ottenne di
prendere come cognome quello dei reverendissimi padri. Il mio nonno fece il
falegname, da prima da grosso, poi proprio come carpentiere. Si sposò nel 1689
con una brava ragazza che si chiamava Maria Antonia Minoli ch’era figlia d’un
tappezziere. Gerardo entrò nella bottega del suocero dove lavorò tutta la vita,
anche dopo che mia nonna fu sedotta da un bel tipo e indotta a far l’attrice:
lo seguì a Venezia e non si seppe più nulla di lei. Prima di partire per la
Serenissima fece in tempo a dar tre figli a Gerardo, fra cui un maschio di nome
Ambrogio, mio padre.
Il
mio papà nacque nel 1711 e imparò il mestiere di famiglia migliorandosi e
diventando mobiliere ad ogni effetto. Si sposò con mia madre, Serafina
Sacerdoti, un’ebrea conversa ch’era figlia d’un mercante di stoffe, da cui la
bottega si serviva. Era una donna bella e ben fatta, da cui presi gli occhi
scuri che divennero una delle mie armi decisive. I miei ebbero due figli:
Pietro, il primogenito, nel 1730 che continuò il lavoro di mobiliere e ora l’ha
passato ai suoi tre figli maschi, ultima nacqui io.
Fin
da bimbetta stavo sempre a bottega e m’insegnarono a leggere e a scrivere quel
che bastava per far andar avanti il negozio. Bastava a loro, ma non a me. Mi
mettevo su d’uno sgabello da disegno e cominciavo a tirar righe e tracciar
curve con le sagome di legno fatte a posta. Mi divertivo a disegnare dei mobili
di fantasia e a scegliere la stoffa con cui coprirli. I miei eran contenti e dicevano che avevo
buon gusto, tuttavia cercavano di mettermi in mano ago e filo per imparare a
cucire le imbottiture e i cuscini. Non c’era verso: come mi dimostravo
lazzarona e indisciplinata per quei lavori muliebri, così ero attenta alle fasi
della lavorazione dei mobili.
Un
giorno mio padre mi mise in braccio una
serie di pezze di broccato e mi disse di seguirlo. Andammo verso il Duomo ,
dalla Corsia dei Servi svoltammo in Contrada dell’Agnello ed entrammo in un
palazzo signorile. Al secondo piano abitava un notaio, andavamo da lui perché
mio papà doveva prendere delle misure per una boiserie. Appena entrati una
serva mi prese per un braccio e mi portò verso un’altra sala arredata dove ci
aspettava la padrona di casa, la signora Gentili. Ella prese le stoffe dalle
mani della cameriera senza troppo badarmi e cominciò a commentare le pezze con
la sua domestica.
Si
dimenticarono di me e io cominciai a esplorare quella immensa sala. Restai
abbagliata dalla bellezza dei mobili, dagli intarsi preziosi e quasi miracolosi
per la loro finezza e precisione, le abbondanti addizioni di metallo dorato m’incantavano
gli occhi, allora s’usava lo stile detto della Reggenza, i piano di marmo,
politi e venati in modo visto solo sugli altari delle chiese più belle, mi
fecero capire che esistevano case e arredi senza paraggio con quelli che il mio
papà faceva in casa.
Fin
da allora, se qualcosa mi piace non posso far a meno di toccarla e cominciai a
palpare tutto: le curve dei mobili, le dorature, le maniglie fuse in forme
affascinanti, i punti in cui si univano le impiallacciature a intarsio, così
lisce da non sentire il segno fra l’una e l’altra delle tessere.
Terrorizzata
che stessi rovinando tutte le lucidature a spirito, la domestica corse da me e
mi portò via. Piagnucolando non me ne volevo staccare, la cameriera stava quasi
per darmele, quando la signora Gentili le ordinò di lasciarmi. Mi fece
avvicinare e mi chiese se da vero mi piacevano tanto i suoi mobili.
“
Più di qualsiasi altra roba al mondo che ho visto fin al giorno d’oggi! ”
risposi da perfetta ignorantella qual ero, e lo dissi in dialetto naturalmente.
La Gentili rise e mi disse che potevo guardare
a volontà.
Arrivò
mio padre con il signor notaio Gentili e la signora gli comunicò quale stoffe
avesse scelto.
Stavamo
per andarcene quando la padrona di casa ci richiamò. Mi fece andar presso di sé
e aprì un faldone che stava sul tavolo, cercò un po’ e poi chiese a mio padre
se poteva regalarmi una stampa parigina che raffigurava una sala di non so
quale nobile di corte. Mio padre si inchinò ringraziando e lo stesso feci io
con molta riverenza.
Sull’uscio
della sala non so qual forza mi prese e mi girai verso la signora Gentili che
mi pareva bella e nobile come un angelo “ Signora marchesa – lei non era
marchesa, ma a Milano si dà del marchese a tutti – se ce ne ha d’altre posso
venir a vederle? – sbirciai mio padre – Quando ci ha da fare una qualche
riparazione, magari… ”.
Mi
rispose che certo potevo, se il mio genitore era d’accordo. Lui disse che forse
era la volta buona che cominciavo a lavorare un po’. La Gentili rise di nuovo e lo rimproverò, in
un modo che mi parve sublime, che invece doveva assecondare il mio interesse e
il buon gusto che avevo. Ne avrebbe tratto giovamento anche lui nel suo lavoro.
Sulla
via del ritorno a casa, benché stesse per nevicare, camminavo sbracciando via
la mantellina e ripetevo ogni due passi: “ Hai sentito quello che ha detto la
signora marchesa? ”.
Mio
padre sbuffava e grugniva ma si vedeva che sotto sotto si stava convincendo.
Avevo allora dodici anni e una scelta di lavoro s’imponeva.
Papà
Ambrogio si persuase che il mio avvenire non consisteva nel passar le giornate
a cucire tende, imbottiture, tovaglie e trapunte. Del resto, pover uomo, non
sapeva che fare: soldi ce n’erano pochi, abbastanza per farci viver bene ma non
di più.
Provò
a chiedere a qualche mobiliere di lusso, ma nessuno si dette disponibile a
perder del tempo con una fanciulla.
Io
intanto andavo sempre più di spesso dalla signora Gentili e alla fine avevo
molte stampe di case facoltose. C’erano anche dei quadri, nella casa Gentili,
dove si potevano vedere delle scene familiari e raffigurati i locali dove si
prendeva la cioccolata, il caffè, dove si pranzava e cenava, o le feste nei
salotti tutti illuminati. Chiesi il permesso alla Gentili di copiarli e, a
parte alcuni di valore che ritrassi in casa, molti me ne diede da portare a
bottega.
Mio
padre non ci capiva più nulla: quando mi dava una mansione per il negozio,
prima di averla gli veniva il latte alle ginocchia, quando potevo mettermi da
canto per disegnare le mie stampe o inventarne di nuove, lavoravo come una
matta, e via un disegno dopo l’altro.
Un
giorno passai davanti a un negozio di libraio e vidi un grosso volume in-folio che
s’intitolava all’incirca ‘ Novi gusti nell’arredamento de’ mobili alla parigina
’. Entrai e il commesso mi prese sul serio poiché avevo già tredici anni ed
ero, così mi diceva ognuno, tanto bella, inoltre ho sempre tenuto molto alla
pulizia e, se non vestivo elegantemente, ero sempre in ordine e dignitosa.
Chiesi di poter sfogliare il volume e rimasi stupefatta.
Il
nuovo gusto alla corte di Francia era stato aggiornato dalla favorita del re
Luigi XV, la signora di Pompadour.
Di
questa donna, cui chiesi al commesso, si diceva avesse molto fascino e una
bellezza inimmaginabile, come in effetti ebbi modo di vedere in seguito, e che
mirava a influenzare addirittura il sovrano circondandolo di cose belle, non
ostante ne fosse l’amante ufficiale da un anno soltanto. Aveva così visitato le
Manifatture Reali dando consigli preziosi che stavano trasformando il gusto e
la bellezza della corte più raffinata d’Europa. Era del resto una donna pienamente
matura avendo ventiquattro anni. Tutte queste cose le seppi dopo: il commesso non era così
informato sulla corte di Versailles.
Dovremmo,
noi Italiani, ricordare e andar orgogliosi che fu una nostra illustrissima
connazionale a portar a Parigi l’arte
per il bello applicato: Maria de’ Medici, moglie di Luigi XIII, fiorentina.
Chiesi
il costo di quel volume e quando il commesso, ch’era il nipote del libraio, me
lo disse, scossi il capo dichiarando che non me lo sarei mai potuto permettere,
e una grossa lacrima scese sulla mia guancia. Egli ne fu toccato e mi disse che
comunque avrei potuto sfogliarlo quando avessi voluto. Lo salutai e tornai a
casa a capo chino.
Mia
madre mi chiese cos’avessi. Le raccontai il fatto e lei sospirò e mi diede un
bacio. La sera a tavola raccontò a mio padre l’accaduto e aggiunse: “ La Nina
ha la sua gioia nel pensare e dipingere le belle case ”.
Il
mio papà la guardò come per dire che se n’era accorto anche lui, ma non sapeva
cosa farci. Aveva ragione: nell’accademia prendevano solo uomini e nessuna
donna faceva l’architetto.
Protestai
“ Ma in Francia la marchesa di Pompadour dà gli ordini agli artefici! ”. Tutti
risero e anch’io dovetti convenire dell’ingenuità della mia affermazione.
A
volte nella vita ci capita un fatto che ci butta nello sconforto, ma da cui poi
nasce una fortuna. Questo è ciò che m’accadde e che cambiò completamente la mia
vita.
Dopo
un po’ di volte ch’ero andata a sfogliare il libro nel negozio del signor H. avevo
ormai confidenza con il nipote. Era un giovane molto educato e cortese, ma mai
gli avevo fatto sperare qualche cosa. Una domenica a pranzo sentimmo il
campanino della porta. Mio fratello si alzò e andò nella bottega per dire che
il giorno del Signore si restava chiusi. Tornò dicendo che un giovanotto per
bene voleva parlar con me.
All’ingresso
della bottega m’aspettava Iacopo, il nipote del libraio H.. mi scusai che non
avevamo dove farlo accomodare, ma disse che non importava perché voleva innanzi
tutto parlare con me e poi, se del caso, anche coi miei genitori. Ci mettemmo in un canto e lo pregai di dirmi
ogni cosa.
Mi
disse che si rendeva conto ch’ero ancora giovane, ma nel vedermi di frequente
al negozio aveva concepito per me dei sentimenti dolci e, gli pareva,
condivisi. Aggiunse, prima che potessi riprendermi, che lo zio aveva la libreria
e la stamperia annessa e importanti contatti con l’Austria. Lo zio non sapeva
nulla della sua iniziativa, ma non importava: “ Signorina Anna, se lei vuole io
la sposo subito e andremo davanti a mio zio a fatto compiuto! ”.
Io
fui tratta nel più gran imbarazzo, non solo per la proposta che mi veniva
fatta, e a cui io non avevo mai pensato, nemmeno nelle mie fantasie, ma anche
perché sapevo che mio fratello stava sentendo tutto dall’anticamera e lo
avrebbe spifferato ai miei genitori. Presi tempo ma non dissi subito né di no
né che non era mia intenzione di sposarlo.
Infine
una volta entrai nella libreria e non lo trovai, c’era invece lo zio, un uomo
altissimo e severo, mezzo austriaco, al quale farfugliai qualcosa sul fatto che
il nipote mi dava modo di guardare quel volume. Con aria distratta fece segno
che anche per lui andava bene: “ Tanto non lo comprerà mai nessuno… ” concluse.
Cominciai
a guardar le figure come al solito e quando Iacopo entrò non m’accorsi nemmeno
di lui.
Eravamo
in tempo d’estate e indossavo solo una gonna di tela leggera e una camicetta, la
mantiglia l’avevo lasciata su una sedia lì vicino. Leggevo, o sia guardavo i
disegni perché allora ero quasi analfabeta, seduta con la gonna che avevo
alzato fino alle ginocchia e le gambe appoggiate su uno sgabellino in modo che
le ciabattine di raso pendevano appena dalla punta dei piedi, avevo delle calze
di seta leggerissima, ma s’era di luglio.
Fece
un po’ di rumore e m’accorsi di lui riassettandomi in fretta. Mi disse delle
cose gentili, che forse per lui erano galanti, e io, per accondiscendenza,
divenni rossa. Da quel momento, credo, s’innamorò di me.
La
cosa non era affatto strana di per sé, e in fondo a me sarebbe convenuto d’accettare,
però pensavo che come moglie di Iacopo H. non sarei stata per nulla più libera
di dedicarmi alla mia passione: l’architettura delle case. Forse dopo anni di
matrimonio avrebbe acconsentito a pubblicare, sotto pseudonimo, qualche mio
disegno di decorazioni. Del resto come signora H. a nessuno sarebbe venuto in
mente di affidarmi il disegno e l’arredamento di casa sua, forse se fossi stata
una nobile estrosa: sarebbe bastato pigliarmi come amanti tutti gli architetti
e decoratori della bisogna.
Alla
notizia, che seppero da quel giuda di mio fratello, i miei furono
contentissimi, mi vedevano già ben sistemata fra i borghesi e senza nemmeno il
problema della dote, perché il Iacopino vi rinunziava senz’ambagi.
Ma
avevano fatto i conti senza l’oste. Quando lo zio, signor H., lo seppe proibì
al nipote di vedermi e gli ricordò la sua promessa fatta alla signorina O..
Non
si prese neppure la briga di parlar con mio padre e la cosa finì lì, senza
nemmeno cominciare se non nella fantasia dei miei.
Non
potei andar più alla libreria - lo feci anni dopo e fui ricevuta in ben altro
modo - e caddi nella più totale disperazione.
Mi
confidai con la signora Gentili che mi coprì di baci ma mi disse di rassegnarmi
perché non v’era via alcuna.
Nel
mese d’agosto, siamo nell’anno 1747, il signor H. partì per Vienna, Praga,
Dresda e altre città a far scorta di nuovi libri. La signorina O. invitò il suo
fidanzato in campagna, avevano una casa a Lampugnano, e per ciò s’andava e
veniva dalla città in breve tempo.
Una
sera Iacopo venne a bussare alle mie finestre di camera. Prima avevamo solo
parlato in chiesa o in qualche posto isolato. Scesi per mezzo di un ballatoio e
andammo a discorrere sotto la rimessa dei cavalli.
Mi
disse che si sarebbe sposato a settembre, durante le feste per il compleanno
della Madonna. Non v’erano più speranze per noi, dovevamo rassegnarci, ma in
lui non s’era ancora spenta la passione per me.
Mi
disse, ché il tempo era poco, che voleva fossi sua a ogni costo, di chiedergli
quel che volevo e mi avrebbe esaudita, se io avessi esaudito lui.
Vi
potrà sembrar normale che la mia reazione
fosse o un ceffone o una ritirata offesa. Invece mi stupii io stessa di
far le seguenti considerazioni.
Iacopo
non era abbastanza ricco da tenermi come amante e dopo che si fosse annoiato di
me non avrei potuto vantarmi dell’esserlo stata. Non provavo per lui né amore
né antipatia, anzi gli ero riconoscente per avermi permesso di consultare il
grande volume. La cosa migliore da fare era quella di mettere a frutto
l’occasione e poi amici come prima.
Gli
risposi che sarei stata sua per una notte intera, ma volevo in cambio il volume
sullo stile della Pompadour, che si chiamava Luigi XV. Non più d’una notte,
altrimenti si sarebbe innamorato sul serio. Ci mettemmo d’accordo per lì a due.
Lui avrebbe detto alla signorina O. che doveva trattenersi a Milano per un paio
di giorni e avrebbe pagato di tasca sua il libro facendolo figurare come
venduto a uno straniero di passaggio, mi disse anche che nome s’era inventato.
Io
annunciai in casa che volevo passar la notte da un’amica, per dire le novene
alla Santissima Vergine. Lui trovò una bella camera a sue spese, dove cenammo e
poi ci abbandonammo una nelle braccia dell’altro. Non vi dico se mi trovò
vergine perché non è elegante esser curiosi su tal punto. Era il 29 d’agosto, giorno, lo dico con indiscreta ironia, del
martirio di San Giovanni Battista. Ci lasciammo alle prime luci dell’alba e io
mi portai via sottobraccio il libro.
Iacopo
si sposò e partì per un viaggio di piacere e di lui in pratica non sentii più
parlare. Peraltro la signorina O. era
molto graziosa e si dimostrò una buona moglie, ma lei era nata per quello, io
cominciavo a capire che no.
Mi
confidai con la mia amica, che chiamerò Maria perché ora lei è una donna
sposata, e che sapeva del garbuglio, dicendomi soddisfatta dei miei trofei.
Dopo
qualche giorno, quando gli sposini erano ancora in viaggio, una sua conoscente,
detta la Streppona, mi prese da parte e mi disse ch’ero una stupida ad
accontentarmi di quel che avevo rimediato. Risposi subito che non volevo
ricattare Iacopo. Precisò che non era lui l’uomo, ma lo zio. Occorreva
paventargli d’innanzi lo scandalo: la seduzione d’una vergine, la famiglia
onorata, le sue promesse alla signorina O. et cetera.
Questa
Streppona era una contadina che s’era trasferita a Milano e io non capivo
perché se la prendesse tanto a cuore visto che non me la prendevo così nemmeno
io. Maria mi disse che voleva solo che spillassi un po’ di soldi al signor H. e
poi averne una parte: lei viveva di quello. Mi dissi subito contraria e
congedai la Streppona. Poi passai il resto del giorno con Maria.
La
Streppona volle tentare di sua iniziativa col signor H. senza che io lo sapessi
e lui lo venne a sapere e si preoccupò al punto di venirmi a cercare
personalmente.
Questa
detestabile popolana mi tampinò anche in seguito cercando d’appurare se Iacopo
m’avesse resa pregna, appunto per offrirmi i suoi servigi. Io mi spaventai un
po’ perché, così giovane com’ero, non potevo esser sicura che non fosse
successo il patatrac.
Nella
corte dove abitavamo, in Contrada di Porta Orientale, vicino al convento dei
cappuccini, v’era una donna sulla quarantina di nome Caterina, che faceva la
prostituta. Era ancora piacente per fare quel mestiere e sapeva truccarsi in
modo da trovare dei clienti di bocca buona. Io non la frequentavo, come mi
avevano consigliato tutte le altre donne, ma pensai che fosse l’unica che potesse
risolvere il mio dubbio, e a cui lo potessi rivelare intendo .
Ella
mi ascoltò, ed ebbi l’impressione che non fossi la prima a fargli quella
confidenza, mi chiese solo, prima di farmi proseguire, se avevo già le mie cose
mensili. Risposi di no, e di questo ne ero certa, almeno. Allora rise e mi
disse di non preoccuparmi e godermela finche durava. Mi spiegò il perché e
compresi.
Continuerò
la mia storia nella prossima lettera e vi descriverò il modo in cui il signor
H., per cavarsi da un impaccio che non esisteva, fe’ la mia fortuna.
Qui
a Milano, abbiamo un bel modo di star in compagnia che è quello di cantare, ma non
posso farlo per carta, seppur mi bastasse la voce che m’è rimasta. Un altro è
quello d’improvvisar dei versi di poesia a ogni brindisi.
Allora
alziamo i calici e ascoltate quest’odicina.
Mi
proteggo dal vento
con
la mia mantellina,
io
sono solo una ragazzina
che
vede il futuro
farsi
ora più vicino,
ma
senza paura comincia il cammino
sperando
che il suo cuore,
ricco
sol di passione,
l’aiuti
sempre in ogni stagione.
Per
intanto, sperando di ritrovarvi in buona salute, vogliate gradire le mie più
sincere riverenze.
A.M. Somaschi
In
sua casa di Contrada della Spiga,
ora
settima di pomeriggio del 24 maggio 1752.