venerdì 5 febbraio 2016

Durante la Commedia

Quando ho messo in relazione la composizione architettonica con esempi analoghi di versi poetici intendevo suggerire un modo diverso di approcciare il tema della critica letteraria. Non quello nuovo o il più giusto: uno in più. Le conseguenze di questo nuovo punto di vista non sono però banali.
Ancora una volta, qui mi capiranno di più coloro i quali hanno composto qualcosa nella loro vita, e segnatamente nelle arti figurative o nella musica.
Ciò che cambia è l’occhio, è il modo di vedere le cose. Un modo immediatamente connesso con la materialità del comporre, privo (vorrei dire libero...) della separazione entomologica fra critico e opera letteraria. In un parola è diverso analizzare, anche con amore, un’opera d’arte e porsi il problema di mostrarsi attraverso un’opera d’arte. Se si nasce con lo spirito compositivo si entra nell’opera pensando come l’avremmo fatta noi e immaginando lo stato d’animo dell’autore nel suo fare pratico, nel passare dall’intenzione alla forma. E se si riesce a penetrare in questo livello il godimento estetico coinvolge molto di più sia della comprensione analitica e critica sia della fascinazione emotiva.
Naturalmente ognuno può nascere con questo istinto progettuale o esserne privo.

Una via di mezzo mi paiono gli interpreti musicali o gli attori, che in qualche modo ricompongono a ogni esibizione, pur non essendo dei compositori in senso pieno.
Mi ricordo che una volta chiesero, durante un’intervista, a Arturo Benedetti Michelangeli (e qui credo non sia necessario spiegare chi fosse nemmeno ai non italiani... comunque era questo) se non avesse mai pensato di comporre qualcosa. Egli rispose di no con aria quasi scandalizzata, aggiungendo “ No, no: io sono solo un esecutore ”. Eppure potremmo affermare che il suo genio, la sua sensibilità ed eleganza non partecipassero nemmeno un po’ alla creazione o ri-creazione della musica che eseguiva? D’altra parte, noi, cosa ne sappiamo di come fosse suonata la musica di Bach o Mozart o Chopin da loro stessi?
Per celebrare il 260esimo compleanno di Wolferl, detto anche Amadè, (e Google che si ricorda del 127esimo e sei mesi di uno che ha scoperto l’acqua calda non se n’è ricordato/a [Google è maschile o femminile?]) che come sapete cade il 27 di gennaio, mi sono rivisto il “Don Giovanni” scaligero diretto dal grande Riccardo Muti, con la regia di Giorgio Strehler, del 1987.

"Don Giovanni" Teatro alla Scala 1987

 Nel secondo atto, prima della prima scena in-credibile ossia quella del sepolcreto (un’altra volta dirò perché la definisco in-credibile), arriva l’aria “ Mi tradì quell’alma ingrata ” di Donna Elvira, interpretata dall’ottima Ann Murray la cui voce forse non era già più freschissima.
Quest’aria ha la caratteristica di avere il recitativo accompagnato addirittura più bello dell’aria stessa. A mio insignificante parere quest’aria viene meglio se la si canta non troppo in fretta. Il recitativo accompagnato è in genere convenientemente pausato, piuttosto lento e interpretativo, e bellissimo appunto. Ora, Muti ha sempre ragione, per definizione, ma mi è sembrato che scegliesse, dopo il consueto approccio al recitativo accompagnato, un tempo piuttosto veloce per l’aria. Laddove io presentirei un affanno più dell’animo che non del ritmo.
Per curiosità mi sono cercato lo spartito per vedere le indicazioni del tempo. E lì indicava lo stesso tempo sia per il recitativo accompagnato sia per l’aria: allegro assai. La tonalità del recitativo è in la minore e muta nell’aria in mi  bemolle maggiore (credo...) ma il tempo è lo stesso. Dunque c’è un intervento degli esecutori per rendere al meglio quella parte di opera: l’interpretazione entra a far parte della composizione stessa.

Passando al nostro orticello e alla affermazione del post, prendo a esempio la più famosa composizione poetica italiana: la “ Divina Commedia ”.

Dante Alighieri attribuito a Giotto

 Secoli di critica ci hanno proposto mille e una interpretazioni del poema di Dante (il giorno del compleanno non si sa, ma era senz’altro dei Gemelli).

Una Divina Commedia del XIV secolo

 Non mi metterò certo a parlare di questo: non saprei nemmeno da che parte cominciare.
Ma quello che normalmente si dice è che il poema è diviso in tre sezioni: Inferno, Purgatorio e Paradiso e nella Commedia Dante ha voluto illustrare le sue teorie spirituali e esoteriche in merito alla religione cristiana. Questo in soldoni. E questo appare evidente a chiunque. Intendo dire che è senz’altro così.
Allora potremmo dire, come ho mostrato nel Danteum di Terragni, nei post sull’architettura della poesia, che questa tripartizione sia la struttura architettonica del poema. Come un grande tempio con tre spazi in successione in ognuno dei quali succede qualcosa.
Ma appunto cosa succede? Che Dante, accompagnato da una guida, incontra una serie sterminata di personaggi di ogni tipo e di ogni epoca. Dunque una possibile lettura della Commedia è che questo poema sia soprattutto una composizione per personaggi, e che questo sia una ipotesi per lo meno fondata lo è proprio il titolo originale “La Commedia”.
Il percorso suggerito da Dante non sarebbe in questo caso una sorta di rivelazione mistico esoterica, ma una narrazione della storia, dalla più antica alla sua contemporanea, attraverso protagonisti che in alcuni casi sono i maggiori attori politici, in altri sono sconosciuti o quasi.
Ciò non vuol dire che le interpretazioni spirituali non esistano: l’opera è talmente grande, in tutti i sensi, che contiene plurimi piani di lettura, ma che la percezione del poema da parte nostra cambia poiché vediamo che la struttura portante, per chiamarla così, non è il piano simbolico ma uno più fitto di realtà storiche, politiche e letterarie alla quale Dante si sentiva vicino almeno quanto a quella consueta delle significanze teologiche.
Se tale ipotesi ha un valore, l’elemento allegorico appare come uno sfondo necessario, o se preferite un continuum linguistico, come nell’architettura sono appunto gli stilemi derivati dalla storia dell’architettura, che al tempo stesso dà luogo e ricopre la vera struttura compositiva del poema.
In fondo quando Dante scrive, ma prima concepisce la sua opera, si incontrano in modo ancora duttile tre stili architettonici: Romanico nascente, Gotico che via via si va affermando in Europa e, in Italia, il vetero classicismo bizantino, che introduce l’elemento levantino così caro ai critici danteschi di stretta osservanza.
Compiendo un passo in più si vede che uno dei requisiti che i personaggi della Commedia devono avere è di poter essere inseriti in categorie di vario genere: morale, storico, politico, letterario, affabulatorio, sentimentale ecc... Dunque vi è una esigenza, verrebbe da dire proprio scenica, di luoghi opportunamente connotati attraverso i quali sistematizzare i caratteri. La scelta dei tre spazi dell’anima, Inferno, Purgatorio e Paradiso, risponde perfettamente a questo requisito, come gli spazi distributivi di un progetto architettonico soddisfano le loro esigenze. Insomma la Commedia è una sorta di gigantesco condominio della storia. Infatti per non perdersi occorre avere un abile cicerone.
La scelta della ragione teologica è anche il modo migliore per avere una traccia per collocare nel posto giusto, in tutti i sensi, i vari personaggi: là dove ‘devono’ stare, dove ci si aspetta di trovarli, e con le dovute eccezioni che confermano la regola.
La scelta topologica dei tre luoghi sovrannaturali ha un altro compito che lega la Commedia direttamente alla fonte di tutti i poemi, mi riferisco all’epica omerica: essa permette di trattare simultaneamente personaggi lontani fra loro nel tempo.
È molto probabile infatti che i personaggi dell’Iliade e dell’Odissea possano essere realmente vissuti, sono state ritrovate iscrizioni che nominano un Halaksandus fra gli anatolici che poi diviene Paride Alessandro per esempio, ma non necessariamente anzi quasi sicuramente non contemporanei. Alcuni sono trasposizioni di miti, per esempio Achille, eroe probabilmente del ciclo degli argonauti ma anche più antico, indoeuropeo, poiché è stato messo in relazione con l’eroe celta Cuchulainn. L’origine indoeuropea si collocherebbe per entrambi gli eroi fra il Mar Nero e il Mar Caspio. L’epica li attualizza tutti col pretesto della grande guerra sotto Ilio e col ritorno di Odisseo. L’Odissea contiene almeno tre sotto poemi: una Telemachiade, il viaggio di Odisseo, strettamente legato al ciclo degli Argonauti, e il ritorno a Itaca dell’eroe. Ogni capo all’assedio di Troia racconta forse un mito fondativo di una città. Il requisito qui è che ogni polis e ogni comunità siano rappresentati affinché i due poemi assurgano all’identificazione nazionale. Ma, per esempio c’è un colossale anacronismo.
Se gli archeologi hanno identificato correttamente lo strato di Troia VIIa come quello della guerra, collocato per tradizione alla fine del XIII secolo a.C. e gli storici non fallano definendo la spedizione contro Ilio come l’ultima grande impresa micenea prima del crollo, ebbene in quel tempo la città egemone nel mondo miceneo era Tebe e non più Micene, mentre, come si sa, il capo della missione è Agamennone re della città del Peloponneso. Micene fu egemone nel mondo miceneo secoli prima. Nella narrazione i miti tebani sono accennati da Nestore che appartiene a una generazione invece più vecchia degli eroi che combattono per la bella Elena.

Una piccola digressione. Gli storici ci dicono che, sebbene il motivo ufficiale della guerra contro Ilio sia la ‘fuitina’ di Elena col ganzo Paride, il motivo vero fu la lotta per la supremazia dei traffici marittimi attraverso l’Ellesponto, l’attuale Stretto dei Dardanelli. Peccato però che nei due poemi non si parli mai di un porto di Ilio. Quindi questo potrebbe essere solo uno dei motivi.
Quando Odisseo torna in patria cosa trova? Un gruppo di principotti, assai maleducati per vero, che però legittimamente fanno la corte a Penelope, mirando a sposarla per divenire re di Itaca. Allo stesso modo Odisseo divenne il re di Itaca sposando Penelope, probabilmente una figlia del pezzo da novanta del continente che decideva chi governasse le isole. Dunque la sorte regia viaggiava per via femminile.
Durante le battaglie dell’Iliade si capisce chiaramente, è detto, che gli Achei capiscono e parlano la stessa lingua dei Troiani, mentre non quella degli alleati di Priamo che sono più lontani o dell’interno. Dunque i Troiani sono Greci quanto gli Achei. Dunque, Menelao è re di Lacedemone perché ha sposato Elena, che è figlia di Leda e sorella dei Dioscuri (Dios kuroi: figli di Zeus) così che Elena non è solo bellissima ma anche un po’ divina.

Elena di Troia di Dante Gabriel Rossetti

 Del resto chi aveva promesso Elena a Paride? Afrodite che era la Dea più venerata della Laconia, soprattutto nell’isola di Citera.
Dobbiamo immaginare che come gli Achei miravano a espandersi così anche i Teucri facevano lo stesso. E se qualcuno avesse fatto fuori Menelao, il bel Paride avrebbe sposato Elena potendo rivendicare il regno di Sparta, a un tiro di schioppo da Micene capitale dei Micenei e reame del fratello di Menelao: l’Atride Agamennone, capo della spedizione. Prova ne è che nel libro III quando i due eserciti, stufi di scamazzarsi, decidono di affidare l’esito della guerra a un duello, a chi propone che si scontrino i due campioni Ettore e Aiace Telamonio (Achille essendo in sciopero) la turba risponde “Un paio di balle! È una questione fra Menelao e Paride”. A Menelao prudono le mani e Paride comincia a farsela sotto.
Non è un motivo sufficiente per la guerra? E non è molto probabile che sia accaduto davvero?
Infatti quando Odisseo torna a Itaca, non ostante Penelope lo riconosca e poi lui si palesi, a vendetta compiuta lei gli fa un bel terzo grado per vedere se è ancora degno di essere suo sposo e re dell’isola. Del resto era partito vent’anni prima dicendo “Esco a comprare le sigarette” e quanto a fedeltà coniugale ne aveva fatte più di Carlo in Francia.

Penelope di Dante Gabriel Rossetti

 Tornando alla questione della non contemporaneità dei personaggi, Omero risolve con un grande evento epocale, una assoluta ricapitolazione, restando nell’ambito mitico ed epico. Dante ricorre a una sublime architettura formale mistico esoterica per risolvere lo stesso problema.
Mi pare, per concludere, che l’idea possa essere stata suggerita a Dante proprio da Omero, in particolare l’evocazione dei morti del libro XI dell’Odissea quando l’eroe, seguendo le istruzioni di Circe, figlia del Sole, raggiunge il punto in cui si può accedere all’Ade.

p.s. per i non italiani.
Spiego il titolo. Dante è la contrazione di Durante che è il nome con il quale fu battezzato il nostro grande Fiorentino: Durante di Alighiero degli Alighieri. Il nome non è l’avverbio durante: nessun padre è così fetente da chiamare suo figlio con un avverbio. È il participio presente, usato come epiteto, del verbo durare nel significato di perdurare, mantenersi, essere forte e stabile ecc...