mercoledì 19 ottobre 2016

Un capolavoro assoluto: La chanson de Roland



 
La battaglia di Roncisvalle

La Chanson de Roland fu scritta nell’XI secolo ed è uno dei primi poemi di gesta o cavallereschi, se non addirittura il primo. Se si segue l’ultimo verso, l’autore sarebbe un certo Turoldo, non meglio identificato. Appartiene all’evoluzione della letteratura in versi trobadorica ed è l’archetipo di molti poemi dei secoli successivi. È una poesia che andrebbe dunque pensata in musica.
Peraltro ha un tono nettamente più storico e serio dei poemi successivi, come quelli di  Boiardo e Ariosto, dove prevale senza dubbio il carattere di divertimento e fantastico. La qual cosa è spiegabile col fatto che i cavalieri dell’anno Mille sono molto diversi da quelli cortigiani del Rinascimento. Ma questo ci porterebbe fuori dal tema che  voglio trattare.
L’episodio storico che è all’origine della Chanson de Roland è una spedizione della durata di sette mesi, durante il 778, che Carlomagno condusse sui Pirenei. La sua retroguardia, comandata da un suo vassallo, prefetto dei territori britannici, di nome Hruodlandus o Rothlandus o Roland come si affermò poi, fu attaccata in un agguato dalle popolazioni basche o guascone e distrutta. In quella battaglia, a Rencesvals (Roncisvalle) il 15 di agosto del 778, morì Roland, conosciuto in italiano come Orlando.
Il fatto politico derivava da una richiesta di aiuto che il governatore di Barcellona, Suleiman ibn al-Arabi (letteralmente: Salomone figlio dell’arabo), contro l’indipendenza del Califfato di Cordoba.
Il testo è stato scritto proprio fra la caduta dell’Emirato di Cordoba (1031) e il bando della prima Crociata (1096) che si concluse con la presa di Gerusalemme il 15 di luglio del 1099.
Quello che intendo raccontare è un’interpretazione dei fatti del poema dalla quale si ricava come il livello di cultura e di conoscenza dell’autore, e va da sé del suo ambiente intellettuale, non sia quello dei secoli bui del medioevo e dei primi balbettamenti della letteratura in volgare. Pregiudizio che è troppo presente quando si parla di testi antichi. È un argomento che mi è caro personalmente avendo scritto due romanzoni, più una saga in realtà, sul tema dei cavalieri.
Il poema è scritto in francese antico che appare piuttosto diverso dall’odierno. Seguo il  testo e ti propongo la mia lettura. I versi sono tratti da “La chanson de Roland” della BUR, Milano, X edizione, 2010.

La durata della guerra è aumentata a sette anni e già qui vedo, non solo un buon argomento per rendere drammaturgicamente credibili le vicende narrate ma anche un riferimento non casuale alla guerra di Troia. L’episodio storico è sviluppato nell’ambito di una guerra fatale come quella di Ilio, appunto, o quella analoga di Enea. Dovremo interrogarci sulla conoscenza dei poemi omerici, in una qualche, totale o parziale, traduzione in latino e del poema virgiliano.
Ad ogni modo, le cose stanno così. Dopo sette lunghi anni Carlo ha conquistato tutta la zona tranne la città di Saragozza che è ancora in mano al re saraceno Marsilio.
Si dice che Marsilio non crede in Dio ma in Maometto (Mahumet nel testo) e Apollo (Apollin). E qui appare subito quella che sembra un’incongruenza, ben sapendo che i musulmani sono monoteisti.
Ma, riflettendo, convince di più pensare al fatto che l’armata saracena sarà stata composta, come più avanti apparirà confermato, da un gruppo eterogeneo di popoli i quali partecipano alla guerra non tanto per motivi religiosi (sempre enfatizzati dalla critica in un campo e nell’altro) ma per bottino. La cosa è confermata persino da alcune sure del Corano in cui il tema principale è la spartizione del bottino e il fatto che i primi convertiti, finita la battaglia, se ne tornassero a casa con il frutto della loro predazione. Dopo la sconfitta di Uhud, alcuni di essi accusarono palesemente Muhammad di averli ingannati perché promise che nel nome di Allah avrebbero vinto una ricca preda di guerra.
Nelle lasse CCXXX e seguenti si dice che fanno parte dell’armata saracena, fra gli altri, i Persi, gli slavi Leutizi, i Nubiani, gli Schiavoni (Slavonia), Armeni, Mori, Negri, Cananei, Turchi, Unni, Ungari ecc...
È nominata anche la terza divinità: Tervagante (Tervagan). È assai possibile, anzi probabile, che i capi saraceni permettessero ai loro alleati di portarsi le divinità in campagna militare piuttosto che ottenerne un rifiuto. E poi, che Islam esisteva nell’VIII secolo? Consideriamo per esempio le cosiddette ‘trinità’ dei musulmani sciiti, la cui più importante è Allah, Muhammad e Alì.
Dice, ma che c’entra Apollo? E se fosse un abu Allah o abu al-Ihla (magari col suffisso plurale –in)? È solo un’ipotesi. Tervagante mi ricorda un Trismegisto o un nome iranico, ma dico a caso.

Nella lassa II e seguenti Marsilio parla ai suoi capi e ammette che dopo sette anni di guerra cominciano a mancargli i mezzi e si è reso conto che i Saraceni sono inferiori come forza militare ai Franchi.
Anche questa è una considerazione che ha conferme nella storia. Quando Carlomagno passò in Italia per sconfiggere i Longobardi, nel 773, dopo alcuni scontri in Val d’Aosta e in Piemonte, il re Desiderio si ritirò in grave difficoltà a Pavia, da dove negoziò la resa, in seguito ad aver sperimentato la superiorità della cavalleria franca che utilizzava la tattica della carica in ranghi compatti e lancia spianata, che i Longobardi non conoscevano.
Risponde al re Marsilio il saggio Biancandrino che propone una via d’uscita onorevole per lui: mandare tesori tali che Carlo possa rispettare le retribuzioni dei suoi soldati, cosicché il re dei Franchi decida di por fine alla guerra, dura e lunga per tutti, e se ne torni in Francia. La promessa è che Marsilio entro un mese lo raggiunga a Aquisgrana e che si farà cristiano e vassallo di Carlo. L’ultimo verso della VII lassa ci anticipa che dietro la proposta degli ambasciatori saraceni si nasconde un tranello, ma in effetti essa appare una proposta sensata per cessare le ostilità. Infatti Carlomagno sarà molto in dubbio se accettarla o no.
Qui vale la pena di aprire una digressione. Possiamo domandarci: è sensato che Marsilio, facendo sua la proposta di Biancandrino, mandi degli ambasciatori ufficiali promettendo a Carlo di farsi cristiano?
Se la valutazione è strettamente religiosa la risposta è no. E però Carlo la considererà molto seriamente e l’accetterà. Ora noi oggi abbiamo molta difficoltà a pensare a un’apostasia di Marsilio. E non voglio dire solo che i musulmani di oggi siano diversi da quelli di allora.
Si dimentica che, sebbene la religione islamica prenda le componenti teologiche, pochissime in assoluto per la verità, dal Cristianesimo, soprattutto dai vangeli apocrifi, riceve la natura di patto religioso solo dalla Bibbia. Da lì viene l’ineluttabilità e irreversibilità della conversione e la condanna mortale per gli apostati.
Se volessimo sintetizzare che cosa sia la Bibbia, nel suo senso vero e originale, dovremmo dire che è il racconto di un patto di alleanza fra gli Israeliti e il Dio chiamato Yahweh. E il rispetto del patto, esplicato nelle numerose disposizioni di legge che Yahweh ha emanato, è il solo modo di essere fedeli all’alleanza.
Nel racconto biblico a Yahweh non interessa molto, in realtà, di ciò che fanno o non fanno gli Israeliti, ma molto che rispettino il patto. Quella è la legge e quella è la ‘fede’. Ciò si ricava anche da come è descritta la conoscenza nei libri sapienziali: la sapienza o scienza è solo il rispetto dell’accordo d’alleanza. Per esempio Yahweh lascia fare cose tremende al suo prediletto Davide, come far uccidere un suo ufficiale solo per poterne sposare la bella moglie. La conseguenza per Davide è solo che non sarà lui ad avere l’onore di edificare il tempio. Ma quando lo stesso re Davide decide di far svolgere un semplice censimento della consistenza militare di Israele, Yahweh si ferma a stento dall’ucciderlo. La ragione è che una delle cose che spettavano in esclusiva a Yahweh, secondo il patto stipulato con Mosè, c’era la convocazione di un censimento militare tre volte all’anno. Non si poteva sgarrare di una virgola sulle regole del patto, una qualsivoglia.
Mi dirai: ma che c’entra tutto questo? A parte che dovrebbe essere chiaro, senza che mi dilunghi, la reale natura della religione islamica, che però non è argomento di questo scritto, considera che i musulmani hanno un patto d’alleanza con Allah mentre i cristiani ne hanno uno con un Dio che non si sa chi sia, perché Gesù agli Ebrei diceva che era Yahweh e ai discepoli che il Padre non lo conosceva nessuno tranne lui, mentre Yahweh lo avevano visto in tanti. Aveva un atteggiamento tattico, diciamo, funzionale a ciò che si prefissava. E che peraltro non è nemmeno chiaro: il fantomatico regno dei cieli, di cui oltretutto non ha mai mantenuto la promessa soprattutto nei termini che egli stesso indicò.
Ora il tema in questione è che entrambe le religioni del poema si basavano e si basano su un patto con un Dio in nome del quale si vince e si governa. Ma essendo le due religioni di conversi, a differenza dell’Ebraismo, il problema dell’apostasia si pone solo quando si esce dall’alleanza ma restando nella comunità di origine. Se si esce e si passa a un’altra alleanza questo pericolo non occorre più. Terrorista permettendo...
Dunque Marsilio sta proponendo a Carlo di essere disposto a uscire dall’alleanza con Allah, o Maometto, se si vuole e forse meglio, e a entrare in quella che ha eletto a proprio Dio Gesù. Su queste alleanze, in senso biblico, si fondano l’autorità di Carlomagno e il suo governo e le conquiste dei Saraceni e il loro governo. La proposta di Marsilio di divenire cristiano e vassallo di Carlo è perfettamente plausibile come scambio che permette a Carlo di vincere la guerra e a Marsilio di mantenere i suoi territori, facendoli passare a un’altra alleanza da quella originale. Ulteriore conferma è nella lassa successiva in cui si accenna al fatto che dopo le conquiste gli abitanti o divenivano cristiani, cioè ‘alleati’ o erano uccisi. I musulmani facevano lo stesso oppure vendevano i prigionieri come schiavi per finanziarsi le guerre d’espansione.
Nella lassa X c’è la risposta di Carlo a Biancandrino ambasciatore dopo lunga riflessione.

« “Parlate bene” ai messaggeri disse
“ma il re Marsilio è molto mio nemico.
Alle parole che avete detto qui
in che misura conviene che m’affidi?”».

Biancandrino conferma che il suo re si farà cristiano. Il giorno dopo: “Bello fu il vespro e il sole fu chiaro”, Carlo convoca l’assemblea dei Pari per decidere.
Nella lassa XIV Orlando (in francese Rollant) si dice nettamente in disaccordo con la proposta di Marsilio, che ritiene truffaldina, menziona un inganno del genere precedente e  propende per la continuazione della guerra fino alla vittoria totale. Ricorda parlando di aver conquistato per Carlo molte città e castelli.
Orlando non ha qui ancora acquisito la tipologia del perfetto paladino, ricco di fede, coraggioso e con un’aria di sfortuna e sventura che gli incombe, verrà perfino descritto in seguito come strabico e di non bell’aspetto. Qui è ancora il classico eroe individualista, amante della battaglia in quanto tale e gli argomenti per essere ascoltato sono gli stessi che nell’Iliade utilizza Achille.
Nella vicenda troiana, la questione della bella Briseide è solo un pretesto, la classica goccia che fa traboccare il vaso troppo pieno delle irregolarità di Agamennone. Achille ricorda di aver conquistato e predato molti centri sulla costa e isole e alla fine di aver rimesso tutto nelle mani di Agamennone il quale però è stato assai di parte nel fare le divisioni del bottino. La strategia dei Greci all’assedio di Ilio consisteva nella presa d’atto che la città non poteva essere stretta nella parte posteriore a causa delle montagne e delle numerose popolazioni amiche e che da lì poteva avere un rifornimento continuo e reggere l’assedio di fatto all’infinito. Dunque l’unico modo per indebolirla era quello di colpirla sui centri della costa e nei suoi commerci.
Achille lamenta di tornare al campo addirittura nauseato dal sangue e dalla violenza che ha sparso e di essere così apertamente ricambiato in modo non equo. Mette in discussione l’autorità stessa di Agamennone.
Orlando, naturalmente, non può rivolgersi con quel tono al suo sire, ma il parallelismo è evidente.
La voglia di finire quella lunga e spossante guerra è forte e alla fine, dopo gli interventi di Gano e di Namo, Carlo decide per accettare e inviare un’ambasceria a Marsilio.
Nella lassa XVII Carlo chiede chi dovrà andare a riportare la risposta a Marsilio.
Si offrono Namo, Orlando e il vescovo Turpino, ma Carlo rifiuta. Qui a sorpresa Orlando indica che vada il suo patrigno Gano. Siamo nella lassa XX e il fatto è di difficile interpretazione. In tutto il poema si sottintende che i rapporti non siano buoni fra Orlando e Gano, ma non è detto in modo chiaro, forse la storia era data come risaputa.

«Disse re Carlo “ Cavalieri di Francia,
del mio paese un barone indicatemi
che rechi al re Marsilio il mio messaggio”.
Orlando disse: “Il mio patrigno Gano”».

Orlando è suo figliastro, e si potrebbe pensare a motivazioni psicologiche, anche perché non è chiara la vera paternità di Orlando (forse è un figlio incestuoso di Carlo). Gano non è il traditore per antonomasia che sarà dopo, è un barone bello e coraggioso, la sua reazione potrebbe essere dovuta al comportamento provocatorio di Orlando, la cui imprudenza è tratto peculiare del suo carattere.

Risponde Gano: 
  «“...ma se di là Dio mi farà tornare
     Ti farò sempre un così gran contrasto
     che durerà per quanto tu vivrai”.
   “Follia e orgoglio! Qui gli risponde Orlando».              

E nella lassa successiva (XXI):
 «“... Né tu vassallo mi sei, né io tuo sire
    Carlo comanda che io vada a servirlo
   Ma io farò certo qualche follia
   Prima di porre fine alla mia grand’ira”
   Quando l’udì, si mise Orlando a ridere».

Ancora Gano a Orlando (XXII): 
 «... Al conte dice: “Io non v’amo per niente:
   Avete fatto una maligna scelta».       

Durante il viaggio di ritorno al capo dei Saraceni, Gano e Biancandrino si accordano per l’inganno.
Biancandrino ritiene i baroni Franchi responsabili della lunga durata della guerra, per sfrenato amore di conquista.

« Gano risponde: “ D’uomini tali io so
  soltanto Orlando, che un dì ne avrà vergogna.
  ...
 Dovrebbe certo rovinarlo l’orgoglio
 perché ogni giorno alla morte si espone.
 Se alcun l’uccide, avremo pace dopo”».

La risposta di Carlo ripropone i termini dell’offerta di Marsilio, ma Gano fa apparire la forma, più che un accordo, come una minaccia, insinuando che dei territori la metà restino a Marsilio e l’altra divengano feudi di Orlando. Marsilio vorrebbe uccidere Gano ma Biancandrino rivela l’accordo fra lui e il barone franco.
Nelle lasse XL e XLI c’è un colloquio fra Marsilio e Gano, ormai parte diligente nel tradimento. Marsilio fa riferimento due volte all’età avanzata di Carlomagno: “ Ha passato i duecent’anni ” e poi “ Per quanto io sappia, ha duecent’anni e meglio. ... Quando sarà stanco di far guerra?”.
La risposta di Gano è senza repliche: “Mai” disse “finché il nipote è in piedi!”. Il nipote è ovviamente Orlando.

Va detta una cosa su questa irreale età di Carlomagno. Piuttosto che intenderla come un’anacronistica enfasi della vecchiezza del sovrano, proviamo a pensare quanti anni sono passati dai fatti d’arme e dall’incoronazione di Carlo a Imperatore, il giorno di Natale dell’anno 800, al momento in cui questo poema è stato scritto: duecentocinquanta per fare cifra tonda. Ossia sono due secoli e mezzo che in Europa esiste il sistema feudale. Vale a dire che Carlo è ancora presente con la sua creazione quando si narrano le sue gesta, la sua presenza è attualizzata dalla sua venerandissima età. Quella che avrebbe se fosse ancora vivo, ed egli era ancora vivo nel sistema che regolava la politica dell’Europa.

Il piano di Gano è questo. Marsilio accetterà la proposta di Carlo gli invierà le ricchezze pattuite e gli ostaggi  di garanzia. Carlo abbandonerà la Spagna e lascerà una retroguardia. Gano promette, ne è sicuro, che a comandarla sarà Orlando, insieme al suo fido cugino Oliviero e ad altri Pari, e avrà la consistenza di ventimila cavalieri scelti. Quando Carlomagno sarà ai valichi di Cisa (Roncisvalle), Marsilio coi suoi attaccherà la retroguardia ferma a controllare la situazione. I Saraceni avranno da soffrire, ma la morte di Orlando è certa.

Nella lassa XLV: «“Se alcun potesse a Orlando dar la morte,
                                 farebbe Carlo del braccio destro tronco,
                                 si fermerebbero le truppe prodigiose,
                                 non riunirebbe più Carlo sì gran forze”».

Con doni da parte dei più nobili dei Saraceni si sancisce l’accordo per l’imboscata. Fra chi porta doni v’è anche la bellissima moglie di Marsilio, Bramimonda.
Al ritorno al campo di Carlo, Gano aggiunge che i temuti aiuti per mare dell’Emiro, che Marsilio si aspetta, non verranno perché egli con la sua flotta ha fatto naufragio. La cosa non è vera e Carlo se ne accorgerà dopo.
Carlo raduna tutte le salmerie e parte deciso verso casa. Ma... si fa così una ritirata? Qualunque militare vi direbbe di no. Ci si allontana a gruppi e uno si attesta e l’altro ripiega, senza fretta e senza allungare i reparti. E allora? Carlo non lo sapeva? Ma come dice la lassa LV i Francesi alzano il vessillo al campo. È evidente che la retroguardia deve sì controllare le spalle del grosso dell’armata ma soprattutto deve svolgere un ruolo di ambasciata coi Saraceni per confermare gli accordi.
“Passa la notte e appare l’alba chiara” (lassa LVIII).
Carlo deve scegliere chi comanderà la retroguardia, Gano suggerisce il miglior barone: Orlando, suo figlioccio.

«Il conte Orlando, che scegliere s’intese,
 allor parlò da vero cavaliere:
 “Signor patrigno, caro vi debbo avere:
 la retroguardia avete per me scelta!”».

Orlando sale a cavallo e gli altri pari fanno a gara per seguirlo nella pericolosa missione. Con loro avranno solo ventimila cavalieri (‘solo’ rispetto all’iperbole sul numero dei guerrieri coinvolti nella guerra che è modo tradizionale di questo tipo di poemi).
Non appena Marsilio vede che Carlo ha scollinato, raduna dalla Spagna quattrocentomila uomini e si appresta ad attaccare. Tutti i migliori campioni dei Saraceni promettono che saranno loro a uccidere Orlando. E si armano.

Lassa LXXIX.
«Chiaro fu il giorno e il sole fu bello.
Non v’è armatura che tutta non fiammeggi.
Suonano mille trombe, perché sia meglio».

Oliviero se ne accorge e avvisa Orlando che animosamente spera di venire a combattere coi saraceni: “Paien unt tort e chrestiens unt dreit!”. I pagani hanno torto e i cristiani han ragione.
E qui tutta la solita tiritera sulla semplicità e integralismo del pensiero religioso. Ma Orlando non fa altro che sottolineare che gli attaccanti, coloro che hanno occupato terre europee e che si espandono con pericolo, sono i Saraceni. Ciò che hanno i cristiani, intesi come Europei, è il diritto di riprendersi le loro terre, che un tempo erano cristiane. È l’affermazione di un diritto giuridico contro quello di conquista.
Nella lassa LXXX Oliviero sale su una collina e vede la gran turba di saraceni avvicinarsi:

«“Gano doveva saperlo il traditore,
 che fece il nostro nome all’imperatore”.
 “Taci Oliviero” Orlando gli risponde,
 “è mio patrigno: non farne più parola”».

Nella lassa LXXXIII Oliviero chiede a Orlando di suonare il corno in modo che Carlo sentendolo ritorni in soccorso. Ma senti cosa...

«Risponde Orlando: “Sarebbe agir da folle!
 Nella mia Francia io perderei il mio nome”».

Nella lassa successiva Oliviero lo scongiura di suonare l’olifante.

«Risponde Orlando: “A Domineddio non piaccia
 che i miei parenti sian per me biasimati
 e disonore ne abbia la dolce Francia!”».

Perché Orlando è così ostinato. Oliviero ha chiaramente ragione: il pericolo incombe. È solo perché Orlando è un audace incline all’imprudenza ed è anche un po’ esaltato e tendente ad andare fuori di testa, come poi la tradizione lo dipingerà? Forse.
Ma il suo compito, quello che Carlo gli ha affidato, non è una missione suicida, anche se lo può diventare. Egli deve controllare e riferire che i Saraceni stanno tornando nelle terre conquistate, ma il loro atteggiamento deve essere pacifico e mostrare il rispetto dei patti. Qui non c’è nessun trattato da rispettare, nessun congresso ha portato a una risoluzione. C’è solo la parola di due re.
Che i Saraceni vengano verso di loro è perfettamente normale: stanno tornando nelle loro città. Suonare l’olifante sarebbe un atto che romperebbe la reciproca fiducia del patto e a quel punto i Saraceni avrebbero motivo di attaccarli, e la responsabilità sarebbe di Orlando e le conseguenze si estenderebbero anche alla sua famiglia e alla sua gente. Egli può solo aspettare, e solo quando i Saraceni gli muoveranno battaglia, tirare la conclusione che tutto è stato un inganno e che Gano ha tradito. Non è stolto, sospetta anche lui, ma in una società dove tutto dipende dall’essere un vassallo, cioè ‘uomo di un uomo’ e averne la completa fiducia e mettere la propria vita per servire il proprio sire, non si può rischiare di far fallire un accordo per paura di uno scontro.
Nella lassa XC Orlando ormai vede che l’attacco sta avvenendo, non ci son più dubbi. Solo allora si volge gentile a Oliviero

«“Sire compagno, lo sapevate bene
   che il conte Gano ci ha fatto tradimento.
   ...
   Il re Marsilio ci ha preso come merce,
   ma con le spade pagare ben ci deve’”.

La battaglia a questo punto divampa e: 
 « La giovinezza perdon tanti Francesi,
    che madri e mogli non potran rivedere»
                                                                                                                             (lassa CIX).

Si confrontano in migliori campioni dell’una e dell’altra parte, ma l’esercito di Marsilio è infinito: “Sull’erba verde il chiaro sangue fila” (CXXV).
Sembra invano che i Franchi possano farcela a respingere i nemici:

«I morti possono calcolarsi davvero,
 come sta scritto nelle carte e nei brevi,
 a quattromila e più, dice la Gesta.
 Per quattro assalti è andata loro bene,
 ma il quinto assalto è una dura faccenda.
 Muoiono tutti i guerrieri francesi,
 meno sessanta, che Dio ha lasciati in piedi».
(lassa CXXVI).

Nasce una contesa fra Orlando che ora vuol suonare l’olifante e Oliviero che lo rimprovera di non averlo fatto quando lui lo chiese ed erano ancora in tempo, e gli nega che sua sorella Alda, la Bella, sarà mai la sposa di Orlando. Discutono come se avessero ancora un futuro. L’arcivescovo Turpino interviene a pacificare gli amici. Ormai il corno non servirà più a salvarli ma, richiamando Carlo, egli il re, farà la loro vendetta.

Lassa CXXXIII: «Il conte Orlando con pena e con affanno,
                              con gran dolore or suona l’olifante.
                              Fuor della bocca gli sgorga il sangue chiaro
                              e al suo cervello la tempia ecco si schianta».

Nonostante Gano cerchi di far credere che Orlando suoni per farsi baldo coi suoi, Carlo dà l’ordine di armarsi e tornare indietro e fa arrestare Gano.

La lassa CXXXIX recita:
«Orlando guarda verso i monti e i picchi
 Vede giacere tanti francesi uccisi,
 e allor piange da cavalier gentile:
 “V’abbia pietà, signori baroni, Dio!
 Alle vostre anime conceda il Paradiso,
 perché a giacere fra i santi fiori stiano!
 Di voi vassalli migliori mai non vidi:
 per tanto tempo voi m’avete servito
 ...
 Terra di Francia, dolce paese, qui
 fatta deserta da sì aspra rovina!
 Baroni franchi, so che per me morite,
 né a me difendervi o salvarvi è possibile:
 v ’aiuti Dio, che non ha mai mentito!
 Non v’abbandono, Oliviero, fratello mio!
 Morrò di pena se nient’altro m’uccide.
 Sire compagno, ritorniamo a colpire!”».

Orlando va contro il re Marsilio e con un colpo di Durendala (è la variante di questo poema del nome della spada di Orlando) gli tronca il polso destro e lo costringe ad abbandonare il campo di battaglia. Centomila saraceni lo seguono, ma in battaglia resta suo zio, Il Califfo, coi suoi  cinquantamila. Orlando capisce che la morte è a un dipresso.
Oliviero è ferito a morte ma continua a combattere, poi chiama Orlando vicino a sé gridando ‘Munjoie!’: l’impresa di re Carlo. Il loro ultimo dialogo è troppo straziante perché lo si possa riassumere. Quando Oliviero muore la lassa CL canta:

«“Sire compagno, fu mal che foste ardito!
  Per anni e giorni noi siamo stati uniti:
  mai ci facemmo male né tu né io.
  Or che sei morto, m’è gran dolore il vivere!”».

Cade Turpino, colto da quattro lance, ma si rialza e continua a combattere. Orlando combatte in deliquio fino allo sfinimento “senza vigore dà fiato all’olifante”. (CLV)
Carlo risponde con le sue trombe e i pagani esclamano (CLVI):

«“Se Carlo viene, noi avremo gran perdita.
   Se vive Orlando, si rinnova la guerra
   ed è perduta per noi la nostra terra!”.

I Saraceni uccidono Vegliantivo, il destriero di Orlando. Ma la resistenza di Orlando li mette in fuga. Egli vaga sul campo di battaglia  e vede tutti i suoi amici e i baroni morti. Sviene dal dolore, Turpino va a prendere dell’acqua nell’olifante.

Lassa CLXIV:
«Un corso d’acqua si trova a Roncisvalle:
  vi volle andare per portarne a Orlando.
  Vi s’avviò con passo vacillante:
  è così debole che più non può durare:
  non ha più forza, ha perso troppo sangue».

E muore.

Orlando vuole spezzare la sua spada contro una roccia perché non sia preda dei nemici.

«“ Ah Durendala, aveste assai sfortuna!
  Ora che muoio, di voi non avrò cura”».
(CLXX)

Ma non riesce a spezzarla:

«“Ah! Durendala, come sei chiara e bianca!
 Quanto risplendi contro il sole e  divampi!”».
(CLXXI)

«“Ah! Durendala, come sei sacra e fine!”».
(CLXXII)

La lassa CLXXIII canta la morte di Roland:

«Orlando sente che la morte lo prende,
 che dalla testa sopra il cuore gli scende.
 Se ne va subito sotto un pino correndo
 e qui si corica, steso sull’erba verde:
 sotto la spada l’olifante mette;
 verso i pagani poi rivolge la testa
 e questo fa perché vuole davvero
 che dica Carlo, con tutta la sua gente,
 che il nobil conte è perito vincendo».

Torna Carlo sul luogo della battaglia cosparso di cadaveri. Vede che i Saraceni stanno fuggendo e li insegue. In parte li massacra in parte annegano nell’Ebro. Il re Marsilio ferito gravemente spera ancora nell’aiuto di un Emiro che a Alessandria d’Egitto ha raccolto una nuova armata e:

«Ed ecco in maggio, al primo dì d’estate,
  tutti i suoi eserciti avventa sopra il mare».
                                                      (CLXXXVIII)

Giungono mentre Marsilio è in punto di morte e subito si mettono in cerca di Carlo. Egli nel frattempo ritrova il nipote Orlando e tutti i suoi pari caduti a Roncisvalle.

Lassa CCVII: «“ Amico Orlando, tornerò nella Francia
                            ...
                            verran vassalli stranieri da più parti.
                            Domanderanno: ‘E il conte capitano?’.
                            Io dirò loro ch’è morto nella Spagna!”.

Dalla lassa CCXIII si narra della grande battaglia conclusiva fra l’esercito di Carlomagno e quello dei pagani. Si riepilogano le colonne di cavalieri di Carlo. In ordine di marcia sono: Franchi, Bavaresi, Alemanni, Normanni, Bretoni, Pittavini (Poitiers), Fiamminghi, Lorenesi e Borgognotti.
La battaglia è vinta da Carlo e dai Franchi che sullo slancio conquistano Saragozza. Le moschee sono distrutte,  e anche le sinagoghe (ricordi il discorso della religione come patto d’alleanza?) tutti sono battezzati, cioè inseriti nel nuovo patto, chi si rifiuta è ucciso. Sono prigionieri di guerra, su di loro Carlo ha diritto di vita e morte: l’unica via di salvezza è la conversione alla nuova alleanza.
Tutti tranne... Bramimonda, la bellissima moglie di re Marsilio.

Lassa CCLXV:
«Se ne battezzano più assai di centomila,
  veri cristiani; però non la regina,
  che condurranno in Francia in prigionia:
  il re la vuole per amor convertire».

Il  poema si conclude col processo a Gano una volta giunti a Aquisgrana. Nella lassa CCLXVII alla notizia della morte di Orlando, Alda muore subitamente.

Nella lassa CCLXX si dice: 
 «Scritto così v’è nell’antica Gesta:
  che Carlo chiama vassalli di più terre.
  Ad Aquisgrana son tutti alla cappella.
  Fu un grande giorno, fu una festa solenne,
  dicono alcuni del prode San Silvestro.
  Così comincia la storia del processo
  del conte Gano, che fece il tradimento.
  Lo fa il sovrano condurre al suo cospetto».

Brutto veglione per il traditore... Alle accuse contro di lui mosse, Gano si difende asserendo che è vero che ordì la congiura contro Orlando, ma:
 
«Rispose Gano: “Fellone s’io lo nego!                                                                                   
 Mi fece torto Orlando nei miei beni
 e io ne volli la morte e il tormento,
 ma nego affatto che vi sia il tradimento”».
(CCLXXXI)

Fra i parenti di Gano c’è Pinabello che promette a Gano di sfidare chi dei baroni lo voglia morto. La giuria alla fine tenderebbe al perdono di Gano che ha promesso la fedeltà, mai venuta meno, al re Carlone. Ma il sovrano rigetta questa soluzione e si addolora molto in ricordo di Orlando. Un cavaliere di nome Teodorico (Tierris in francese) si propone di sfidare un parente di Gano e propone al re, per dirimere la differenza d’opinione fra quella dei giurati e la sua, di sfidare un parente di Gano, in vece di Carlo stesso che ovviamente non può svolgere quel ruolo per età ma soprattutto per il rango. Concedendo così a Gano una sorta di ordalia. Dice Tierris nella lassa CCLXXVI:

«“Gano è fellone per aver tradito:
   di fronte a voi è spergiuro e malfido.
   Penso che debba impiccato morire.
   ...
  S’egli ha un parente che mi voglia smentire,
  con questa spada che mi vedete cinta
  voglio difendere subito il mio giudizio”.

Avviene lo scontro fra i due campioni e anche se Pinabello cerca di corrompere Tierris affinché sospinga la pace fra Gano e Carlo, alla fine soccombe.
Gano è giustiziato squartato da quattro cavalli e i suoi trenta parenti sono impiccati.
Sul perché siano uccisi anche tutti i parenti si può avanzare una circostanza. Quando il poema fu scritto era già stata emanata dall’Imperatore Enrico III la “Constitutio de feudis” del 1037, con la quale si sanciva il perenne diritto ereditario sulle cariche imperiali, oltreché l’infeudamento delle pievi. Fu una rivoluzione totale: da lì discese l’ereditarietà dei titoli nobiliari dell’aristocrazia successiva, e anche attuale laddove sussista una monarchia, e i grandi patrimoni ecclesiastici dei conventi. Ma al tempo dei fatti, VIII secolo, il diritto feudale prevedeva che tutto l’esistente appartenesse all’imperatore, che ne concedeva in misura e volontà proprie. Quindi una volta morto un vassallo tutto il feudo tornava, almeno formalmente, nelle mani del sovrano, che avrebbe anche potuto darlo a un altro senza nessuna spiegazione. A quale delle due giurisprudenze si rifaceva l’autore del poema? Poiché, o i parenti di Gano sono complici nel tradimento, dunque i fatti di Gano sono solo l’apice di una congiura di stato contro il re, oppure quei trenta dovevano, loro malgrado, essere visti come una minaccia per il sovrano.
Il poema si chiude con la conversione di Bramimonda che col battesimo prende il nome di Giuliana.
La lassa CCXC conclude dicendo: “Passato è il giorno, la notte s’è incupita...” il re fa per dormire ma l’angelo Gabriele gli ordina di radunare l’esercito perché deve andare a Bira, per dare aiuto al sovrano di Infa dove i Saraceni han posto un assedio.
Carlomagno esclama sconsolato “Dio, quanto è penosa la mia vita!”.

Così ho vissuto questo capolavoro assoluto e così te l’ho raccontato come lo vedessi sulla vetrata di una cattedrale.
Ringraziando il cielo sono un poeta ma non un letterato.

 
Parigi - La Sainte Chapelle