martedì 25 agosto 2015

L'architettura della poesia 2



In questo secondo post sui possibili parallelismi fra composizione architettonica e poetica, vorrei affrontare due temi che forse più di ogni altro determinano le scelte di composizione nell’architettura: il rapporto con la storia dell’architettura e il rapporto con la città.
È necessaria prima una precisazione riguardo alla prassi progettuale.
Quando ho descritto i primi due principi della composizione architettonica ho fatto riferimento allo studio preliminare sul sito del progetto e sulla tipologia che si vuole progettare. Anche qui non esiste un metodo universale per fare questa analisi, o meglio, al solito ne esistono tanti. Alcune linee di pensiero danno molta importanza all’analisi preliminare, altre decisamente no. Nella mia formazione è stata sempre più centrale l’intenzione progettuale nei suoi significati che l’analisi urbana o tipologica.
Aggiungo, per chi ha conosciuto un po’ le correnti di pensiero del dibattito architettonico negli anni ottanta e precedenti (già nei novanta qualcosa stava cambiando, in peggio ovviamente), mi sono laureato nella, chiamiamola, scuola gregottiana, dal nome del professor Vittorio Gregotti. Miei relatori di tesi sono stati i professori Raffaello Cecchi e Vincenza Lima (gregottiani appunto: galeotto fu lo Z.E.N. e chi lo progettò...) che ringrazio, a distanza di quasi trent’anni, per quello che mi hanno insegnato, nonostante i nostri rapporti poi si siano interrotti non nel migliore dei modi (per colpa loro).
Dunque, dicevo, non sono la persona adatta per chi volesse sapere come la progettazione architettonica derivi da un metodo scientifico di analisi urbana. Oltretutto non ci credo.
In realtà lo studio della zona interessata dal progetto si mischia da subito con le prime ipotesi progettuali e sono proprio queste che possono servire per sondare e comprendere il territorio e il sito del progetto. E sapere cosa occorre fare e come.
Questa premessa per dire che i due argomenti di specie appartengono più alla formazione generale del progettista che non al tema compositivo in senso stretto, a meno che questo non suggerisca un approccio in un modo o nell’altro rispetto appunto alla storia dell’architettura e alla città. Non esiste quindi un prima e un dopo dei diversi principi compositivi, li espongo in un ordine per la semplice ragione che è impossibile far diversamente.
Sul primo tema direi che si può tranquillamente affermare che tutta la storia dell’architettura (intesa come il complesso della produzione architettonica), e quindi della composizione architettonica, consiste nel rapporto fra l’architettura e sé stessa. Non sarebbe neppure da mettere fra i temi compositivi, data la sua importanza per l’esistenza stessa dell’architettura, se non fosse che questo rapporto è stato in vario modo messo in dubbio fin dagli inizi dei movimenti di architettura moderna (è la critica più inoppugnabile, anche se non sempre totalmente veritiera, che si fa a tutta l’architettura moderna, dalle avanguardie al Movimento Moderno e successivi). A ben guardare anche il rapporto con la città ha vissuto più o meno una sorte analoga. In tempi più recenti alcuni movimenti hanno teorizzato e praticato un ritorno a un rapporto più stretto con l’architettura storica.
Basta, mi devo fermare perché non posso né fare una seppur breve storia dell’architettura né dare conto degli esiti compositivi sia dell’esperienza del moderno sia di quella del, chiamiamolo, post modernismo. Ci vorrebbe troppo spazio e poi uscirei dal tema.
Faccio giusto degli esempi per chiarire di cosa si parla. Se poi non capite proprio una parola di quello che sto dicendo: meglio ancora! Così almeno avete un motivo per non commentare.
Diciamo che tutti i periodi o i cosiddetti stili dell’architettura, almeno da quella greca in poi, si possono dividere fra quelli classicisti (per l’architettura greca ante litteram s’intende) e quelli non classicisti (raramente anticlassici, nonostante quello che si legge spesso).
È chiaro che in un momento di classicismo, e in architettura e nell’arte in genere (tranne, non so perché, nella musica) per classicismo s’intende il periodo o lo stile che si rifà ai canoni dell’architettura e dell’arte greca, il riferimento ai modelli classici è il principio definitivo della composizione architettonica. Ne deriva che nei periodi non classicisti, che in definitiva sono Gotico, Neogotico, Eclettismo ottocentesco, e nel suo complesso l’architettura moderna (in buona sostanza) vi siano altri principi compositivi.
Per gli addetti ai lavori: non fate troppo gli schizzinosi. La carta costa e capite il senso di questi post.
Altra precisazione inutile: è ovvio che mi riferisco all’architettura europea e poi occidentale.
Allora il rapporto con la storia è come il nostro nuovo progetto si relaziona con tutti quelli precedenti e con quali. Proprio così. Non solo i periodi e gli stili, non solo se riutilizzarne alcuni o no, e come e perché, ma anche con i progetti della nostra contemporaneità.
È quello che si chiama(va) il ‘ dibattito architettonico ’.
Presento due esempi di diverso atteggiamento con la storia dell’architettura e volutamente sono dello stesso architetto e sempre dell’architettura moderna perché è la nostra storia dell’architettura più vicina e con la quale dobbiamo (dovremmo) rapportarci.
Il primo esempio è la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni, a Como (per i non italiani è l’altro ramo del lago rispetto a quello dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni) del 1936.
Terragni è uno dei massimi esponenti del Razionalismo italiano. Nella Casa del Fascio (Terragni era fratello del Podestà di Como) abbiamo un altissimo esempio di architettura razionalista fra i cui principi c’era un distacco con ogni genere di riferimento all’architettura storica.
Eccone la planimetria e i prospetti e una foto.




Vi propongo una piccola riflessione-digressione. Tutti sanno che lo stile ufficiale del ventennio fascista fu il Novecentismo (Piacentini e compagnia cantante...). Andate, se volete, a cercarvi la villa che Mussolini regalò alla sua Claretta sul litorale laziale: purissimo stile razionalista. Un’idea di architettura per le masse e un’altra per la sua donna. Ma anche una per i contadini, una per gli operai, una per i borghesi... Opportunismo o insospettato pluralismo? Dilemmi artistici di un uomo dall’ingombrante potere o idee confuse? La Storia non è mai semplice.

Il secondo esempio, sempre di Terragni è il Danteum, un progetto non realizzato di un museo dedicato a Dante, del 1938 a Roma.

Ecco di seguito la planimetria e un plastico.




Si nota subito il ricorso alla colonna, segno di continuità con la storia di valenza assoluta e si può dire simbolica, ripresa con tanto di citazione dei capitelli, riconoscibili nel trattamento lapideo del muro, che peraltro richiama l’opus mixtum dell’architettura romana (come riferimento formale perché l’opus caementicium non era di pietra, ovviamente, ma di mattoni e malta, ma con possibile inserzioni di pietra e questo è molto significativo per l’invenzione di Terragni).
Il committente è lo stesso: Mussolini. E qui si torna alla riflessione... Ma ciò che è importante è il differente approccio di Terragni per casi affatto differenti.

Per ciò che concerne il rapporto con la città si intende quanto si considera come indipendente la nuova costruzione dalla natura del sito in cui si lavora. Naturalmente è uno dei primissimi aspetti, se non addirittura il primo, che si presentano alla mente del progettista. La relazione o meno della nuova architettura con la città può essere determinata da motivi linguistici (lo stile a esempio) o di omogeneità fra vecchio e nuovo, o ragioni di carattere ideologico (dall’aspetto ‘ rivoluzionario ’ della nuova architettura a questioni di viabilità o pubblicitari e altri anche molto prosaici) o tipologici.
Un caso limite può essere dato dagli odiosi disegni di Le Corbusier in cui si vedono degli aerei che bombardano il centro storico, considerato irrecuperabile al nuovo modo di vivere della società industriale. In altri casi si può decidere per una scelta simbolica: un’emergenza monumentale della città alla quale ci si relaziona per collocare il nuovo edificio nel nucleo urbano. È il metodo delle scuole percettiviste.
Si vede da queste poche annotazioni che il tema del rapporto con la città si avvicina a quello ombelicale del rapporto con la storia dell’architettura. Il motivo è che in entrambi i casi ci si pone il problema del rapporto con l’esistente. Tema non da poco se si considera che una definizione accettabile dell’architettura potrebbe essere quella di una disciplina che trasforma in modo permanente il territorio. Nel senso che dopo un intervento architettonico, anche distruggendo l’ipotetico edificio sbagliato, quel luogo non sarà mai più come prima, non fosse altro che nella sua storia c’è stato per un periodo quell’edificio.
Da questa considerazione consegue la grande responsabilità dell’architettura in senso anche sociale e politico.
Per illustrare questo tema porrò tre esempi. Due di rapporto negato con la città e uno di rapporto al contrario addirittura mimetico con il territorio, con la campagna.
Il primo è il Quartiere Siemensstadt di Walter Gropius e altri, del 1929-31  a Berlino.
Ecco la planimetria generale e una foto degli edifici di Gropius.





Le Siedlungen razionaliste si dispongono lungo l’asse eliotermico, all’incirca nord-sud, per avere una migliore esposizione sia come soleggiamento sia come riscaldamento naturale. Sono inerti alla disposizione viaria esistente con la quale di fatto non hanno rapporto, e di conseguenza anche con il resto della città. Si costituiscono come dei nuovi pezzi di città indipendenti. La viabilità che le riguarda è solo quella interna al progetto (condizione necessaria per non dover marciare nel fango per raggiungere casa). Spesso a queste motivazioni a carattere di salubrità si sono sostituite motivazioni meno nobili come la  collocazione più efficace sul piano della percezione e della raggiungibilità dei parcheggi nei centri commerciali.
Naturalmente questa scelta di ignorare la viabilità esistente segna una soluzione di continuità con il tessuto urbano esistente, per sostituirlo con uno più funzionale al miglioramento delle condizioni di vita. Che questo sia realmente successo è un altro paio di maniche e il dibattito sulla radicalità del Movimento Moderno rispetto all’esistente è infinito sia nel senso della dimensione sia in quello della durata. Noterete, spero, la contiguità col problema della relazione con la continuità storica di cui si è parlato prima.

Il secondo esempio è famosissimo. È il Centre Pompidou al Beaubourg di Parigi di Renzo Piano, del 1971 (concorso). Qui lo stesso Piano ha giustificato la sua scelta di ignorare l’esistente, al di là dell’ovvia esaltazione estetica della tecnica (Piano appartiene a quella corrente che si può compendiare sotto il nome di Hi-tech), con l’argomento che il quartiere, fatto di edifici piuttosto seriali di fine ottocento, non gli davano spunto per una relazione fruttuosa.
Ecco del Beaubourg  una veduta dall’alto e una sezione longitudinale in cui si possono vedere gli edifici e il tessuto esistente del quartiere.



A questo punto dovrei mettere un esempio di buona architettura, come tutti quelli che metto, in cui risalti il voluto e cercato rapporto con la città storica (nel senso detto di precedente al momento del progetto) ma i casi sono moltissimi, da quartieri che cercano una saldatura o addirittura la ricucitura del tessuto urbano a ogni edificio che si costruisce in pizzo a una via e che risolva il rapporto con le case vicine. Non saprei nemmeno quale scegliere...
Anzi no, uno ce l’ho e mi è venuto in mente proprio adesso mentre scrivo e credo sia sconosciuto ai non architetti. È la Casa della Meridiana di Giuseppe de Finetti a Milano, del 1925. È interessante perché ha ispirato molti architetti successivi (notare il coronamento a forte aggetto che ha la sua origine  in Palazzo Farnese di Michelangelo e la sua fine nei progetti di Aldo Rossi) nel tentativo di conciliare le istanze dell’architettura moderna con il rapporto con la storia dell’architettura e con la morfogenetica della città. De Finetti è un architetto che dovrebbe essere più conosciuto e riconosciuto nei suoi meriti.
Metto la planimetria del piano terra e una veduta attuale.




Concludo coll’ormai quarto esempio che è l’unità residenziale Ovest della Olivetti a Ivrea di Roberto Gabetti e Aimaro Isola, del 1969 e seguenti. Gabetti e Isola sono un caso quasi unico di poetica del ritorno a ciò che c’era prima del costruito, ossia la campagna, e fra i pochissimi che accettino un rapporto di mimesi con l’esistente.
Di seguito la planimetria con sezione e prospettiva con sezione e una veduta suggestiva.




Proviamo ora a istituire dei possibili parallelismi con la composizione poetica.

Il primo caso che ho trattato era la continuità o discontinuità con la storia. Lascio ai letterati accademici di fare riflessioni affini alle mie su questo rapporto, io mi limito, al solito, a proporre degli esempi che, secondo me, possono essere  visti come trasposizione dei principi della composizione architettonica.
Per sceglier un esempio di continuità voluta con la storia avrei potuto prendere un qualunque sonetto, da Shakespeare in poi. Preferisco proporvi una poesia di Giuseppe Ungaretti nella quale scorgo il tentativo, attraverso l’utilizzo di accenti sdruccioli, di ricreare la sonorità del verso classico greco, di riformare un ritmo secondo la ‘ legge del trocheo ’.
Si tratta  della Nascita d’Aurora, fra l’altro un tema a me assai caro. Mi sono permesso di evidenziare gli accenti.

Nascita d'Aurora

Nel suo dòcile manto e nell'auréola
dal seno, fuggitiva,
deridendo, e pare inviti,
un fiore di pàllida brace
si tòglie e getta, la nùbile notte.
È l'ora che disgiunge il primo chiaro
dall'ùltimo tremore.
Del cielo all'orlo, il gorgo lìvida apre.
Con dita smeraldine
ambìgui moti tèssono un lino.
E d'oro le ombre, tacitando àlacri,
inconsapévoli sospiri,
i solchi mutano in làbili rivi.

Notevole il verso ‘ Del cielo all’orlo, il gorgo livida apre ’ che possiede una tonalità sdrucciola in sé.

Come esempio di discontinuità con la storia una poesia famosissima in versi sciolti di Giacomo Leopardi: L’infinito, dove non ricorre nemmeno una rima e neppure un’assonanza o consonanza. Cosa che non appare in tutte le poesie leopardiane: qua giustamente sì, in altre ogni tanto sbuca qui o là una rima che a quel punto centra poco. Al verso decimo compare un ‘ quello ’ che non è il massimo.

L’infinito

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani                  
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce                     
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.       

L’altro tema era il rapporto con la città. La città delle poesie è un insieme di composizioni che si possono raggruppare per un certo motivo. La continuità deve riprodurre un’affinità col tessuto urbano-poetico, almeno.
Un esempio di poesia diametralmente ostile all’esistente, in modo provocatorio e anche divertente è il poemetto Zang zang tumb di Filippo Tommaso Marinetti, manifesto della poesia Futurista. Se cercate l’omologo in architettura guardate Antonio Sant’Elia.

ogni  5  secondi   cannoni  da    assedio  sventrare 
spazio  con  un  accordo  tam-tuuumb
ammutinamento  di   500    echi   per   azzannarlo
sminuzzarlo   sparpagliarlo   all´infinito
     nel  centro  di  quei  tam-tuuumb
spiaccicati  (ampiezza  50  chilometri  quadrati)
balzare    scoppi    tagli      pugni      batterie    tiro
rapido    violenza     ferocia     regolarità    questo
basso   grave    scandere    gli    strani   folli  agita-
tissimi     acuti    della     battaglia     furia    affanno
                    orecchie                  occhi
                 narici                       aperti           attenti
forza   che    gioia    vedere    udire   fiutare   tutto
tutto    taratatatata    delle   mitragliatrici   strillare
a   perdifiato   sotto   morsi    schiafffffi    traak-traak
frustate        pic-pac-pum-tumb      bizzzzarrie
salti      altezza       200     m.     della        fucileria.  
Giù   giù   in    fondo   all'orchestra    stagni
            diguazzare                        buoi       buffali
pungoli    carri     pluff    plaff                     impen
narsi   di   cavalli  flic   flac   zing  zing sciaaack
ilari     nitriti     iiiiiii...   scalpiccii     tintinnii          
battaglioni   bulgari   in   marcia   croooc-craaac
[ LENTO   DUE   TEMPI ]        Sciumi         Maritza
o    Karvavena    croooc-craaac   grida    delgli
ufficiali    sbataccccchiare  come   piatttti  d'otttttone
pan   di   qua    paack   di    là    cing   buuum
cing    ciak    [ PRESTO ]     ciaciaciaciaciaak
su    giù    là     là    intorno    in    alto   attenzione 
sulla    testa     ciaack    bello                Vampe

Forse la cosa che ha fatto più successo è stato l’uso tipografico che dà alla composizione anche una valenza grafica. Da notare a questo proposito la spaziatura che lascia come un posto nella battuta musicale ai rumori e le indicazioni del tempo di esecuzione.

Come esempio di ricerca di ricucitura con il tessuto della poesia tradizionale, invece dei suoi sonetti a volte persino mimetici, appunto preferisco citare una bella poesia di Andrea Zanzotto: Sagra. In cui la parte iniziale è di fatto un sonetto e poi la composizione continua con un rincorrersi di rime secondo uno schema che somiglia allo stesso dei miei canoni, scusate l’autocitazione ma non intendo affatto compararmi con un poeta acclamato e riconosciuto, solo dire che nel mio minuscolo in certe sperimentazioni ci sto provando anch’io. Tutto lo schema è tenuto da terzine di novenari e un senario nella parte sonetto (cioè fino a ‘ orizzonti ’) e poi è un fuga sempre però di alternanze di novenari e senari.

Sagra

Ah sì? C‟è la sagra? C‟è ancora
la sagra lassù a Valmareno?
“Non vedi? Non è come allora?”
C‟è tutto sereno.
“Ma è dunque la sagra paesana
nel tempo remoto già morta?
É dunque per me ancora sorta
la sagra lontana?
C‟è ancora un sereno di monti
che guarda, di sopra la chiesa,
ai verdi infiniti orizzonti?
E, dimmi, tra fiori e corone
C’è ancora, è discesa
la processione?
C’è ancora la via tra i roseti
nell’aria che a sera tremava
di frulli, di risa?
C‟è ancora il sonare dei lieti
campani che placido andava
pei boschi segreti?
Ci sei dunque ancora o fanciulla
Che amai tra le risa e tra i gridi,
Fanciulla mia pallida, un nulla
Che più non rividi?

Per me la cosa continua a marciare e mi sembra interessante. Continua...