domenica 6 settembre 2015

L'architettura della poesia 4



Quest’ultimo post è piuttosto un postino, infatti vi porterà alcune notizie spicciole su altri aspetti generali della composizione. A differenza di quelli già enunciati, i seguenti sono propri del fare compositivo nella sua forma più pratica, della quotidianità della progettazione.
Quelli che mi vengono in mente, e di certo ne dimenticherò qualcuno ma voi sicuramente me lo farete notare (dato l’incredibile successo che ha accolto questi post architettonici... Ma cosa vi dovevo dire per interessarvi? Se George Clooney ha ancora la sua villa a Laglio?), sono, in ordine sparso: il rapporto con gli altri edifici, il rapporto col sistema viario, i fili architettonici, e il rapporto con gli stili storici, le regole di ingresso e i percorsi.
Vi ho messo anche tante figure...

Una precisazione preliminare. Gli indici urbanistici (indice di copertura: metri quadrati/metri quadrati che definisce l’area dell’edificio, indice di fabbricabilità: metri cubi/metri quadrati che dà l’altezza dell’edificio ecc...), le funzioni (dormire, mangiare, igiene e ogni altra...), i requisiti (rapporto di aeroilluminazine, ricambio d’aria, superfici minime ecc...), le norme di costruzione (distanze, ombre portate, qualità ecc...) non devono essere considerate elementi della composizione architettonica in senso stretto, in sostanza perché gran parte di essi fanno parte della normativa da rispettare. Certo possono essere usati come linee guida, o perché ci si può ragionare su, come nelle funzioni, o per scelta, a esempio il già citato asse eliotermico delle siedlungen. Una scuola di progetto le faceva assurgere a elemento primario della composizione: il Funzionalismo (una variante ancora più scarna del razionalismo), da non disprezzare poiché un buon edificio funzionalista è meglio di tante minchiate presuntuose d’arte, poetica e complessità. Almeno nel funzionalismo non si può nascondere niente.

Sembra banale ma non lo è, quando ci si accinge a progettare ci si deve chiedere come il nostro edificio o i nostri edifici si porranno con quelli esistenti. Naturalmente i modi sono tantissimi e non si possono nemmeno enunciare di sfuggita. Alcuni elementi di decisione potranno essere sia la tipologia che costruiamo sia la volumetria oppure l’importanza storica degli edifici circostanti o una singola emergenza. Con essi ci si potrà confrontare o no, senza cadere in un delirio di  preminenza ma senza mettersi al servizio con senso di inferiorità. La cosa determinante per un buon progetto è la misura del nostro intervento e la giusta soluzione. Faccio un esempio. Se costruiamo vicino a un grande monumento possiamo anche porci ‘ di fronte ’ senza remore, ma non ha senso fare a gara a chi sia più importante. Se ci pensate non può che essere lui il più importante: se non lo fosse sarebbe già demolito. Del resto se per rispetto facciamo un intervento non curato e privo di ogni merito, il monumento non ne sarà per nulla valorizzato. Dopo decenni in cui si sono tolte delle casacce o addirittura le baracche intorno ai grandi monumenti non ha senso metterci una nuova costruzione bislacca e senza decoro.
Molte volte invece il problema è opposto, cioè gli edifici intorno sono brutti o anonimi. In quel caso il nuovo intervento ha il compito preciso di essere migliore e non cercare nessuna relazione con essi, ma semmai di cominciare con la nuova composizione il dialogo storico dell’architettura in quell’area.

Comprenderete che è davvero impossibile cercare di essere esaustivi su un tale argomento e anche dire di più senza parlare nello specifico di un progetto. E scegliere un progetto esemplificativo è fatica sprecata: tutti sono utili al discorso.
Voglio fare un caso un po’ particolare di rapporto fra edifici: l’Acropoli di Atene. Si dice sempre che nell’architettura greca manca la disposizione degli edifici che in qualche maniera li renda correlati fra loro. Ogni edificio si costruisce in un certo punto e, diciamo così, se ne frega degli altri. Ogni edificio si richiuderebbe in sé. Diventa quindi molto interessante studiare, ‘ sentire ’ lo spazio fra un edificio e l’altro, perché è lì che avviene il loro rapporto in assenza di una scelta compositiva esplicita.
Le Corbusier per primo disse, o almeno così afferma la sua mitografia, che tutti gli edifici dell’Acropoli sono convergenti verso un punto che corrisponde ai Propilei.



Il secondo punto è il rapporto col sistema viario. Detto così la scelta è solo duplice: o costruire in pizzo alla via o orientare in modo diverso gli edifici. È un caso che abbiamo già visto. La questione si fa ancora più interessante se si considera che normalmente un sistema viario produce un tessuto urbano, storico o di nuova ideazione. Il problema è di costruire un tessuto urbano nuovo, di continuare l’omogeneità di un tessuto storico, o ricucire gli strappi nel tessuto esistente, dovuti sia a nuovi interventi che non ne tengano conto sia a demolizioni (sono ancora moltissime in Europa quelle belliche) o di fondi non ancora costruiti o originariamente indirizzati ad altra funzione (caso molto comune questo: dismissione delle aree industriali, ex stazioni ferroviarie, terreni demaniali ‘ dimenticati ’...).

A questo proposito vi indico una planimetria in cui si vede l’intervento dell’urbanistica fascista, i cosiddetti sventramenti, sul tessuto storico negli anni trenta. È piazza San Babila a Milano.



Ne esce una piazza troppo frammentaria (in giallo ho evidenziato le lacerazioni) per funzionare e chiunque la conosca sa quanto sia brutta.
La scelta che si pone al progettista è di recuperare (o no: è una scelta possibile anche questa) la continuità urbana senza riempire ogni buco come che la sia.
Nel caso in cui l’edificio sia all’interno di un lotto lungo una strada al rapporto con l’asse viario si aggiunge subito il confronto (o no, anche qui) con gli edifici esistenti. Si capisce che la bellezza di una composizione architettonica consiste nel tenere insieme tutti questi fili e tutti questi gomitoli che si inseguono e si attorcigliano sempre.

Anche qui gli esempi si sprecano. A volte l’adesione alla regola della via è abbastanza acritica a volte ci sono possibilità di ricerca a anche qui. Ho in mente la casa Azuma di Tadao Ando, a Tokyo del 1976, Questa casa monofamiliare ha la facciata sulla via ma all’interno la composizione è giocata su un piccolo ma bellissimo patio. vi offro le planimetrie, una sezione e un'assonometria, una foto e un'elaborazione tridimensionale.




Un altro esempio che non si può tralasciare è la Casa Rustici di Giuseppe Terragni, del 1933, in corso Sempione a Milano. Qui con perfetta aderenza modernista, Terragni costruisce sulla via una facciata, e lo è sotto ogni profilo, che è composta da terrazzi e aperture. Dietro questa pelle si sviluppano i due edifici veri e propri secondo uno schema a semi corte. È un caso in cui l’architettura razionalista aderisce allo stesso tempo sia la dettato stradale sia alla sua indipendenza, destinando al primo una funzione (rapporto con l’esterno) e all’altro la distribuzione dei corpi di fabbrica. Ecco la planimetria, una foto della facciata su corso Sempione e un particolare dei terrazzi.





Terzo argomento, e forse il più disciplinare, è il rapporto con i fili architettonici. Con filo architettonico si intende la prosecuzione di un edificio o di una sua parte, prosecuzione ideale si intende, ma che permette di determinare le dimensioni del progetto. Questo lavoro è svolto soprattutto in pianta, ma può essere fatto anche negli alzati (prospetti e sezioni): un caso davvero comune è uniformare le linee di gronda o i marcapiani. Un esempio è via Dante a Milano, caso rarissimo in città di corrispondenza dei fili di gronda e di piano, ma era previsto espressamente nel bando di concorso. Vi mostro una foto dove ho evidenziato alcuni fili delle facciate.
Per i non milanesi, via Dante va dal Cordusio a Foro Bonaparte. In questa veduta si guarda dal Castello, cioè Foro Bonaparte, verso il Cordusio.



Il dimensionamento sui fili avviene, dicevo, soprattutto in pianta. Del resto ogni progetto è elaborato in massima parte in pianta perché è la sezione (orizzontale) che permette di immettere il maggior numero di dati rispetto a ogni altro disegno di architettura. E poi in genere se funziona in pianta funziona comunque negli alzati. Questo è un principio di prassi architettonica mai smentito se non dalla somaraggine o asinità, che dir si voglia, dei progettisti.
È difficile dire quali fili vanno tenuti, lo suggerirà il sito e gli edifici esistenti (qui ormai una cosa finisce nell’altra). Ancora più difficile trovare esempi: a volte i fili sono molto concettuali e non appariscenti. I fili possono essere reali, ossia dettati dall’esistente, o ideali, cioè nascenti da una teoria di proporzione o di composizione.
Ecco alcuni casi.

La villa Capra detta La Rotonda di Andrea di Pietro della Gondola detto il Palladio è un esempio di fili ideali. Vi propongo planimetria e prospetto e una bella foto di questo capolavoro del 1566.




Altro caso di fili progettuali in parte derivati dall’esistente e in parte cercati all’interno del progetto stesso sono la proposta di sistemazione di piazza Cavour a Milano di Giuseppe de Finetti, del 1942. Ecco una prospettiva in cui evidenzio in rosso alcuni fili, gli altri li potete identificare da voi.



Per ultimo un caso di assoluta mancanza di fili di riferimento. È una scuola di Roma e non menziono gli autori, perché si dice il peccato ma non il peccatore, e comunque non la mostro per una polemica personale. Qui non han beccato un filo nemmeno per sbaglio.



Sempre da de Finetti il progetto della costruzione dei padiglioni della Fiera di Milano, del 1946. Qui è molto evidente come ogni edificio si proponga come filo per l’ordinamento degli altri. Li ho evidenziati in rosso, solo alcuni gli altri scopriteli voi.



L’ultimo tema è il rapporto con lo stile. Intendo qui riferirmi alle vicende dei nostri anni. Il rapporto con gli stili della storia è già stato accennato nel post sul rapporto con la storia dell’architettura appunto, solo accennato per la vastità dell’argomento.
Nel 1980 vi fu una purtroppo celebre ed esiziale biennale di Venezia dove alcuni architetti proposero il ritorno a stilemi storici. Se siete sopravvissuti alla ricerca che vi proponevo nel post scorso, potete, supportati vi consiglio da una boccia di vino, googolare architetture post modern e vedrete la seconda faccia della morte architettonica declinata al delirio. Siamo nel campo della psicopatologia: tenete lontani i bambini e le persone iper sensibili, soprattutto alla bellezza artistica. Declino ogni responsabilità sulle conseguenze fisiche o mentali che potreste derivarne.

Vi offro come esempio un caso interessante di uno dei profeti del post modern (direttore della suddetta biennale): la Moschea di Roma di Paolo Portoghesi, del 1984-95, il quale un bel dì decise di giocarsi una meritata fama internazionale di storico dell’architettura (e anche nazionale perché l’Italia è sempre stata una delle scuole più importanti di storia dell’architettura) per provare l’ebbrezza dello sproloquio progettuale. Questo, che è uno dei suoi primi progetti in tal senso, lo trovò particolarmente ispirato e ne risultò un bel lavoro che prometteva un futuro migliore. Fu ispirato dal profeta Maometto? Direi di no. Così a occhio direi che fu ispirato da Pierluigi Nervi, cioè dal... Razionalismo. Voi che ne dite? Poi, come non seguì la via del profeta Maometto così, non seguì più, purtroppo per noi, quella di Nervi...
Ecco una seducente planimetria e un particolare delle strutture.




Finisco con un esempio di rapporto con lo stile, o meglio con la storia, di un tipo particolare. È il museo che contiene l’Ara Pacis a Roma, di Richard Meier del 2007.
Qui il rapporto con lo stile, e chi se ne intende un po’ di arte sa quanta importanza ebbe il rilievo scultoreo dell’Ara Pacis di Augusto, non è per progettare ma per rapportarsi nella conservazione.
Vi mostro le planimetrie, i prospetti e due vedute dell’esterno e dell’interno.





Questo edificio è ancora oggetto di ferocissime critiche, a mio vedere ingiustificate, a meno di avere un appartamento con vista sul Tevere che l’improvvido museo ha negato all’improvviso.
È giusto che ogni progetto sia valutato e criticato, e con esso l’autore, e anche sul museo di Meier si possono avanzare dei dubbi. Per me è troppo distante dalla leggerezza che conoscevo di Meier, ma l’uso della pietra e dei volumi murari non corrispondenti alla verità costruttiva (cosa ormai normale nei progetti di oggi) può essere stato suggerito proprio dall’oggetto eccezionale che contiene e dunque essere meno gratuito qui che altrove, anche se non particolarmente riuscito. Si può eccepire sui brises soleil, pur necessari per la conservazione, oppure sulla differenza di quota del pavimento che circonda l’ara. Ma insomma stiamo sempre parlando di una buona architettura e di un edificio che non costituisce un danno per la città. Teniamo sempre presente che la volumetria e tutto quello che contorna il sito del monumento è stato chiesto dalla committenza: bisogna sapere quali sono le responsabilità del progettista e quali quelle della committenza.

Gli ultimi due aspetti della composizione architettonica su cui vorrei fermare al vostra attenzione sono le regole di ingresso e i percorsi. Qui siamo al livello ultimo delle scelte progettuali, all’interno del processo di distribuzione nel quale si dà la forma reale al progetto.
Le regole di ingresso sono in sostanza i luoghi attraverso i quali si può accedere al nuovo intervento o accedere fra una parte e l’altra di esso. Dunque i punti da cui si passa dal tessuto urbano esistente, e come e in quale parte del progetto. E così per tutte le parti dell’insieme compositivo. Cioè non è solo una questione di decidere dove mettere le porte e i cancelli.
Stabilendo le regole di accesso e distribuendo i vari ambienti e locali si istituiscono i percorsi. Un esempio di percorso, all’interno di una abitazione può essere: ingresso-cucina, camera da letto-bagno, soggiorno-pranzo-cucina e così anche per altre funzioni non residenziali. Qui esiste una regola, una volta tanto, per giudicare se i percorsi sono corretti.
Il percorso migliore è il più breve, con meno angoli (cambi di direzione) e meno intersecazioni con altri percorsi. È un’analisi che andrebbe svolta scrupolosamente perché dà sicuro valore alla progettazione e i cui effetti si verificano nella realtà immediatamente in termini di comodità o disturbo e fatica.

E con questo termino il mio accenno  agli elementi della composizione architettonica.

A questo punto vi aspettereste i soliti rimandi poetici, ma mi è molto difficile trovare delle corrispondenze puntuali: evidentemente conosco di più l’architettura della poesia.
In ogni caso credo di aver colto il senso possibile del confronto fra composizione poetica e composizione architettonica.
Ho proposto degli strumenti di analisi non accademici che ognuno può verificare trovando gli esempi migliori o che preferisce.

“ Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba ”.

Pro bono malum.