sabato 7 febbraio 2015

Qual è la vera cultura?



È un blog di poesia e non parla mai di poesia... Ma secondo voi, con tutto quello che succede al mondo (ve ne accorgete, o voi siete artisti?) c’è da perdere tempo con la poesia? Io con la poesia mi diverto, mi anticipo fette di paradiso abbinandola al buon cibo, al vino e alla musica. Ci faccio all’amore per scordare tutto, ma se devo scrivere qualcosa che mi urge non parlo di poesia. Perchè la poesia non è diversa da qualunque altra cosa al mondo: è il superfluo che dà senso a una vita che altrimenti non ne avrebbe.
Allora parliamo di cultura, anzi parlo di cultura tanto a chi interessa quello che ho da dire?
Quando ero piccolo passavo i pomeriggi a leggere l’enciclopedia. Quando lo dicevo agli amici mi ridevano in faccia. E avevano ragione. Perdevo tempo cercando di sapere qualche cosa di tutto invece di leggere quelle cose che, una volta lette, ti fanno entrare di diritto nel mondo di coloro che sono colti.
Alt! Istruito, colto, erudito... In quegli anni di storming ormonale cominciavo a chiedermi che differenza ci fosse fra una persona istruita, una colta e una erudita.
Una persona istruita è uno che sa leggere, scrivere, far di conto e capire il testo di una norma o di una regola, anche se qui spesso ci vuole una dose di innata veggenza. Insomma, un uomo istruito, anche una donna è ovvio anche se quest’ultima ha forse solo una chance in più di riuscire a sposarsi bene, è chi riesce a vivere capendo quello che è necessario per la vita sociale e per non far la figura dell’ignorante. E non è poco badate.
Oggi c’è chi dichiara di non avere alcun interesse a sapere se il Senato della Repubblica è di elezione popolare o di nomina, oppure c’è chi confonde i Capi di Stato con i Capi di Governo. Che in Italia, almeno secondo la Costituzione che conosco, si chiama Presidente del Consiglio dei Ministri a indicare il suo ruolo di primus inter pares. D’altra parte l’ultimo Presidente della Repubblica ha costituito dei “ precedenti ” anche se non mi risulta che nella Repubblica Italiana gli atti del Presidente della Repubblica costituiscano una giurisprudenza. Siamo una Repubblica Parlamentare, almeno se non mi sono perso una puntata...
Troppo difficile? Ma sì dai, passiamo alla cultura che è più easy.
Appena un po’ più grandicello decisi, dopo aver consumato interi noiosi pomeriggi puberali facendo zapping fra i volumi dell’enciclopedia, che volevo diventare un uomo colto e non erudito. Che è un po’ come fare il salto in alto e mettere l’asticella a tre metri e vedere di quanto ci passi sotto.
Poi il dovere mi chiamò. Insulso prodotto del baby boom dei sixties, il diploma di geometra mi richiamava al  minimo studio per prendersi l’agognata maturità. In quegli anni di follia democratica anche l’esame di stato degli istituti tecnici assurse a esame di maturità. Follie d’un tempo che fu.
Andai quindi a inquinare il mondo universitario fatto fin allora di maturati di liceo classico o scientifico, noi geometri insieme al giudaismo dei diplomati al liceo artistico e delle magistrali, ammessi sì allo studio universitario ma previo esame di idoneità e relativa stella di Davide da portarsi per il primo anno d’accademia. A noi periti e geometri fu risparmiata, nell’ebbrezza populista, il segno giallo distintivo della razza inferiore.
Di passata mi sembra che l’umile maestro elementare, figlio al massimo d’un ferroviere, andando a insegnare nelle isole dove l’unico abitante era il faro o sulle montagne, fonte di gozzo e denutrizione, permisero a noi tutti di cullare il sogno della laurea sebbene progenie di vile lignaggio.
Quando fui laureando, con un libretto che sfiorava la media del ventinove, solo allora cominciarono a non chiedermi più che studi avessi fatto prima dell’Olimpo accademico.
Intanto però gli anni erano passati e m’ero preso una laurea col massimo dei voti. D’altra parte c’erano trenta esami e sedici tavole di tesi di progettazione architettonica, più una relazione e due plastici, che dimostravano, nonostante la mia subordinata ascendenza, che meritavo di stare a banchetto con gli dei. Almeno lì, all’Università, se ti facevi il culo i risultati arrivavano e ti guadagnavi il rispetto dei docenti.
Una volta finiti gli studi mi si aprì la realtà dell’agognato mondo del lavoro e della ricerca universitaria. Dove se non ti ricordi che sei giudeo, non ti preoccupare che qualcuno ci penserà a ricordartelo.
Lo dico per gli eventuali imbecilli in ascolto: non sono ebreo, è solo una metafora. Sono un goj, e magari fossi stato ebreo, che forse avrei trovato qualcuno in più a darmi una mano.
Morale: tornavo a chiedermi se volevo diventare un uomo colto.
Nel frattempo ero divenuto un uomo adulto, avevo ventisette anni, e avevo elaborato da tempo, a differenza dei ventisettenni d’oggi, il distacco dalla tettarella altrimenti detta ciuccio, che a Milano non vuol dire asino ma appunto ciucciotto.
Quanto fossi ignorante me ne rendevo conto, così come me ne rendo conto, ma necessitavo d’una definizione di cultura e di erudizione. Non potevo che ricordarmi delle mie esperienze da novellotto, parola che in milanese indica quei volatili che non sono più pulcini ma non ancora adulti (in dialetto nuelòtt).
La lettura dell’enciclopedia significava la presa visione di un quanto di conoscenza che corrispondeva al sapere necessario e sufficiente per essere detti colti. Cioè era una questione di asticella che poteva essere messa più su o più giù  seconda delle opportunità. A esempio in un ambiente di cultura media non aver letto i classici russi non ostava alla definizione di uomo colto. In un ambiente di razza ariana, che si annusa spesso e volentieri, era il segno tipico dell’untermensch.
Ero confuso. Come in tutte le storie di salvazione delle anime pie mi venne in soccorso la Vergine Maria. Sotto la forma di una nuova libertà: affrancato dalla schiavitù del libretto potevo, e volevo, leggere solo quello che mi fosse piaciuto. Alla lettera, potevo cominciare un libro, narrativa o saggistica, e dire allo scrittore: “ Bello, sei tu che mi devi convincere a leggerti, altrimenti io ti chiudo il libro sul muso e me ne vado a fare una passeggiata ”.
Dunque il problema non era più fra me e i classici russi, ma fra i classici russi e me. Quindi l’imperfetto Gogol mi ha tenuto a leggere il suo “ Le anime morte ” anche nella seconda parte che è molto più pallosa della prima, ma è interessante, mentre il perfetto Dostojevskj m’ha fregato una volta sola con “ Delitto e castigo ” assurdo come un libretto d’opera di Verdi e poi stop so, ed era estate e faceva pure caldo, li mortacci sua.
Altra precisazione per chi soffre di pruriti virginali: se vi piacciono i classici russi o tedeschi o italiani o inuit mi va bene, leggete quel che vi pare. La donna che piace a uno non dice niente all’altro e hanno ragione entrambi. Io parlo per me e credo d’averne la facoltà.
Poi ci sono quelli che hanno letto trentamila libri, proprio trentamila non un numero a caso, e quando li ascolti sparano una cazzata dietro l’altra, ho in mente filosofi e uomini di cultura molto noti al grande pubblico di cui ovviamente non faccio il nome (perchè non dispongo di un reddito pari al loro e sufficiente a sostenere eventuali spese giuridiche).
Allora esco dalla fase puberale e comprendo che non è il numero di libri letti che fa l’uomo colto, ma come li si è letti.
C’è un adagio, molto saggio a mio modo di vedere, che dice che dopo una certa età non si legge più ma si rilegge.
Io capii che pur leggendo tutto sarei al massimo diventato un uomo erudito, quello che io volevo e voglio è provare a essere un uomo colto. Un uomo erudito al massimo è còlto e fa carriera. Io non sono né colto né còlto ma almeno aspiro a qualcosa.
Ah, dimenticavo di dire che per una donna è lo stesso con la differenza che una donna erudita può risultare per alcuni più sexy, ma anche una rompiballe, dunque non so se ne valga la pena. Una donna colta va incontro agli stessi inconvenienti di un uomo.
E qui arriva la definizione. Una persona erudita sa molte cose ma non è indipendente nel suo sapere. Una persona colta sa di non esserlo ma denota un’indipendenza di pensiero.
Oggi mi dicono che l’università sia un po’ come l’arca di Noè: non importa chi sei, basta che sei un animale e entri. Cacci un sacco di quattrini e vorrei anche vedere se non te la danno la laurea. Chiedete a chi ha studiato architettura fino agli anni ottanta (studiato non frequentato perché c’erano le gnocche di “ Drive in ”) e colui o colei vi diranno che è stata fra le più importanti esperienze della loro vita, perché  ti smontavano la tua bella testa conformista e t’insegnavano a vedere criticamente le cose, a capire quante cose può voler dire una linea messa così anziché cosà, a chiederti come funziona una roba e a cosa ti può servire, se quello che stai progettando è contraddittorio con quello che hai appena detto di voler fare. Insomma ci siamo capiti.
Alla fine il tuo progetto era la tua faccia e non avevi paura di mettercela. Considerate che l’arma più gentile con cui i docenti ti spiegavano perché il tuo progetto era sbagliato era il machete. E tu capivi che avevano ragione e te ne tornavi a casa col “ pirla fra le gambe ”, come dicevamo noi, e mettevi giù la testa e ricominciavi, per anni e per anni. Finché imparavi a usare tu stesso il machete prima che lo usassero loro, ma a quel punto avevi sviluppato una dote di cultura: se una cosa va bene o male, se mi piace o no non me lo deve dire nessun altro: lo so da me.
So che chi non ha mai progettato, o dipinto o scolpito o scritto, in una parola composto nulla pensa che siano parole retoriche, ma chi è passato per la stessa strada sa che è vero.
Dunque un libro non va letto o peggio studiato, va vissuto, va mangiato digerito e cagato, deve diventare una parte di te che ti educa come i genitori o i fratelli maggiori o una maestra.
Io da un libro voglio che mi interessi, che mi spinga ad arrivare alla fine e poi quando è finito rammaricarmi che sia finito. Lo voglio lì vicino a me come il frigorifero se ho sete o fame. Voglio che mi faccia vivere almeno per il periodo della lettura nel tempo in cui è stato scritto. Che dopo la mia prospettiva storica sia cambiata e più chiara. Voglio sapere come è stato scritto, sia nel senso di come funziona sia nel senso di come viveva l’autore quando lo componeva.
L’unica cosa che leggo delle prefazioni dei libri, salvo rari casi e solo dopo che l’ho letto vergine da ogni condizionamento, è la vita dell’autore. Sono affascinato dalle vite degli altri, sono i più bei romanzi.
L’ho citato in un post precedente e vi lascio alcuni versi di Giorgio Caproni che riassumono un po’ quello che ho detto in questa riflessione a proposito dei classici e dei libri ‘imprescindibili’ per gli uomini di cultura. Di una certa cultura, quella dei giornali del controllo massimale, degli intellettuali da trentamila libri, del conformismo accademico e politico, del “ se dico questo faccio bella figura ”. Aggiungetevi voi gli altri casi.

Dubbio a posteriori:
i veri grandi poeti
sono i «poeti minori»?

(da: Giorgio Caproni, “ L’opera in versi ”, Mondadori, Milano, 1998).


Raffaello Sanzio, " La scuola d'Atene ".
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