domenica 6 gennaio 2019

Tracce del sogno dei guerrieri

Ho scritto, come si può desumere dalle “note biografiche e lavori” di questo blog, un testo sul kenjutsu, o sia la tecnica della spada giapponese. Esso riassume gli insegnamenti che davo quando tenevo un corso di kenjutsu.
In questa introduzione spiego le basi della disciplina.
Oggi la spada giapponese è molto di moda ma non tutti ne sanno qualcosa e, da quello che vedo, nemmeno chi vanta diplomi di chissà quale scuola.
Comunque niente polemiche: è un argomento nuovo di cui mi va di dare testimonianza. Come ho già detto “Libera Associazione della Spada” è il nome dell'associazione che fondai quando cominciai a insegnare il kenjutsu e che ora dà il nome al blog.
Ecco l'introduzione tratta dal mio studio “Le tracce del sogno dei guerrieri”.


‹‹ ″Questo libro riassume il contenuto tecnico del kenjutsu come l’ho sperimentato e insegnato nella Ken Jūna Kyōkai.
Il metodo che ha portato alla redazione di queste note è il seguente.
Una volta apprese le forme della tecnica della scherma con spada giapponese con presa a due mani, mi sono chiesto e ho chiesto perché si facesse in quel dato modo ottenendo, quando le ottenevo, delle risposte evasive: si fa così… i maestri l’insegnano così… le forme sono queste… I più onesti dicevano di non saperlo, ma che erano abituati a fare in quel modo. I più stupidi davano spiegazioni campate per aria.
Allora decisi di cominciare il mio studio solitario, avendo come criterio quello che la tecnica dovesse per forza uscire dal tipo di arma stessa che si usava.
Quindi ho passato quattro anni a verificare ogni tecnica che avevo appreso e sei a insegnarla potendo provarla sul campo e apportando qualora fosse il caso le modifiche necessarie.
Devo dire che non si è trattato mai di grandi cambiamenti quanto piuttosto dei miglioramenti che hanno completato la tecnica che avevo messo a punto.
Questa tecnica è risultata, com’era logico, affine a quella tradizionalmente insegnata, ma in alcuni punti si discosta, recuperando la vera tecnica di katana e soprattutto una ben diversa la consapevolezza delle ragioni.
Le forme che sono qui presentate si sono affrancate definitivamente dal kendo e hanno riscoperto l’uso completo della spada con presa a due mani.
Nelle note seguenti metto a parte il lettore delle diverse interpretazioni che legittimamente possono far propendere per una soluzione piuttosto che un’altra. Tutte confermano la bontà del lavoro che ho svolto e che continuo a svolgere.
Nessuna tecnica descritta è inventata ma estratta dalla natura dell’arma e ripulisce di tante inesattezze le forme sclerotizzate del kenjutsu che viene insegnato attualmente.
Il metodo è del tutto empirico e spero di essere stato chiaro nell’esposizione.
Per prima cosa descriverò il tipo di arma che ci accingiamo a studiare e nel corso della trattazione spiegherò, se del caso, cosa muterebbe cambiando il tipo di spada.

La katana

Esistono molti tipi di spade in Giappone, diverse fra loro per la dimensione della lama. Spada in giapponese si dice ken, o to che ha un carattere più generale.
La katana è senza dubbio la più nobile e famosa fra le tipologie di spada giapponese. È anche la più usata e forse la più antica fra quelle a lama curva poiché ha questa forma da almeno milletrecento anni. Sicuramente nel XI sec. era già identica a quella che usiamo ancora oggi.
Prima si usavano spade di fabbricazione cinese a lama dritta con doppio taglio e prima ancora spade dritte con un solo taglio conformato curvo.
Lascio a testi specialistici di introdurre tutte le armi da taglio usate nel Giappone e mi concentrerò solo sulla katana (alcuni dicono ‘ il katana ’ io userò il femminile perché spada in italiano è femminile e in giapponese il genere non è sempre specificato).
Come sanno tutti, la fabbricazione della katana entra nel racconto mitico e perciò ogni più piccola parte di essa ha un nome proprio, ma per usarla bene basta conoscere le sue parti essenziali: quelle a cui si fa riferimento nell’esecuzione delle tecniche.
Comincio la descrizione della katana.
È una spada che possiamo definire come di quelle lunghe e pesanti, che si usano meglio a due mani che non a una, ne consegue che la tecnica prevede quasi esclusivamente forme di presa a due mani.
Peraltro lo studio della presa a due mani è molto più essenziale e elevato di quella a una mano. Sembra più facile perché le possibilità si riducono, ma ciò si porta dietro tutta una serie di movimenti e ragioni specifiche che la fanno un’arma profonda e nobile. A detta di tutti.

La katana è composta di alcune parti che si assemblano per fare la spada completa, ma nell’insieme essa è costituita dalla lama, dall’impugnatura e dall’elsa, oltre che dal fodero.


La lama è in acciaio speciale temprato e il filo subisce una lavorazione particolare che lo tempra in modo impressionante.
La parte visibile della lama è lunga circa 75 cm. Un pezzo di circa una spanna si incastra nell’impugnatura.
È una lama curva con un solo taglio.
La lama in giapponese di dice mi, il filo si chiama ha, la parte senza filo e di sezione più larga si dice mune e la curvatura zori. La punta della lama è detta kensen o kissaki.

L’impugnatura si chiama tsuka ed è composta da due pezzi di legno che racchiudono la parte di lama non visibile. I tre pezzi sono resi solidali da un cavicchio di bambù che si chiama mekugi.
La tsuka costituisce un quarto della lunghezza complessiva della spada, mentre la lama visibile prende gli altri tre quarti.
La tsuka è avvolta in pelle di pesce razza e fasciata con un nastro di seta pesante incrociato per favorire la presa e assorbire il sudore.
Alla fine dell’impugnatura, o per meglio dire all’inizio, c’è il pomolo che contribuisce a chiudere del tutto la tsuka con la pelle di razza e il nastro di seta, e si chiama kashira.

Fra la lama e la tsuka è incastrata l’elsa della spada, per mezzo di un anello di rame inserito a caldo che poi raffreddandosi fa corpo unico con la lama.
L’elsa si dice tsuba ed è di forma varia, ma di solito tonda o quadrata o quadrilobata.
Le forme delle tsube sono mille e mille e sono oggetto di collezione per stile e periodo.
L’elsa protegge la mano, ma per chi padroneggia la tecnica sarebbe anche inutile, in ogni caso, un po’ per precauzione e un po’ per la bellezza artistica, c’è su tutte le katana, tranne in quelle che sono nascoste in un bastone.

La descrizione data fin qui si riferisce a una vera katana con tutti i crismi: la si troverà solo in Giappone e a prezzi molto elevati.
Di norma si prendono delle katana senza filo e alcune parti sono sostituite dalla plastica e l’acciaio non è certo del tipo originario. Ce ne sono anche in lega leggera ma non hanno lo stesso fascino.
Comunque l’essenza del kenjutsu non è certo nel costo o nella bellezza della katana: non fate spropositi.
Io uso da sempre una katana di fabbricazione spagnola che comprai scontata, perché era spaiata di colore col wakizashi. Li pagai tutt’e due centomila lire, credo nell’anno 1987 o giù di lì. Da allora è la mia spada a cui ho dato un nome e che mi accompagna nello studio e nella pratica e spero non si rompa mai.
C’è gente che dopo aver imparato il primo kata dello iaido si compra una katana da 1500 € !

Il baricentro della katana è a circa i 2/3 della lunghezza totale misurando dalla punta o, che è lo stesso, 1/3 dal kashira. Questo rende molto ben bilanciata la spada e comoda da usare.
Non sempre lo stesso è nelle boken, cioè nelle spade di legno che si usano per allenarsi con una spada meno pesante oppure negli scambi, per maggior sicurezza. Soprattutto oggi si trovano delle boken di fabbricazione cinese, molto economiche e andanti, ma poco bilanciate.
La prova di dove si trovi il baricentro della katana o della boken è semplice: la si appoggia sull’indice sul lato del mune o di piatto e si vede quando sta in equilibrio, se è intorno ai 2/3 va bene.
Se il baricentro della katana è sbagliato non c’è niente da fare se non comprare una spada nuova, se è sbilanciata la boken si può lavorare di raspa e assottigliare la parte della punta progressivamente oppure tenersi lo sbilanciamento come difficoltà in più di controllo in modo da averne dei benefici quando si pratica con la katana. Occorre considerare che però tutti gli scambi saranno fatti con la boken perché, se è vero che si useranno katana ottuse, cioè senza filo, rimane una certa pericolosità legata al metallo.
Le migliori boken sono giapponesi in legno di ciliegio, ma si trovano soprattutto in legno di quercia.
Non comprate boken troppo leggere, ma nemmeno troppo pesanti perché sarebbero senz’altro sbilanciate, oppure lavoratele a mano.
Fate conto che una katana sfoderata può pesare anche un chilo e mezzo o più, le boken vanno da tre-quattro etti a sette o ottocento grammi.

L’ultima parte della spada, importante soprattutto nelle tecniche di sfoderamento, ma anche per il significato simbolico, è il fodero, saya in giapponese. Saya è femminile in giapponese.
È composto da due pezzi di legno simmetrici che sono uniti da spine e rifiniti di solito con una laccatura, decorata o no. Si è affermato il gustò della saya nera laccata lucida. Ma niente è obbligatorio. La mia saya è di legno di bambù al naturale.
Il fodero è piuttosto delicato e perciò bisogna imparare bene la tecnica di sfoderamento e rinfodero per non spaccarlo. Dover cambiare la spada perché il fodero è rotto è seccante, del resto se la lama non scivola senz’alcun attrito nel fodero non va bene.
Sul fodero, più o meno a quattro dita dalla tsuba, c’è sul lato sinistro (se teniamo il filo in su com’è normale nella katana in cintura) un ponticello di legno su cui è legato un nastro di seta o cotone. Il ponticello si chiama kurikata e il nastro, lungo almeno un metro ma spesso di più, si chiama sageo.
Sull’uso del kurikata dirò qualcosa nel seguito, perché non c’entra per nulla con la tecnica.
Il sageo ha invece un’importanza simbolica: soprattutto, è un ‘ filo di iniziazione ’, ma in pratica serve per legare la spada al fodero in modo che non esca durante il trasporto.
Simbolicamente la spada legata indica di non voler combattere, slegata che si comincia il combattimento o la pratica.

L’abito

Ossia come ci si veste per praticare il kenjutsu.
Prima regola: l’abito fa il monaco.
Non si può praticare il kenjutsu in tuta o con calzoncini e canottiera. Oltre che orripilante è contrario allo spirito del bushi.
All’inizio si può ammettere che il neofita pratichi con un vestito comodo e sobrio, del tipo delle altre arti marziali o con un abito adatto per fare yoga: pantaloni e casacca all’indiana. E se le condizioni economiche non lo permettono si andrà avanti così.
Ma niente tute, magliette colorate, fusó o roba simile. Piuttosto è meglio praticare con camicia bianca e pantaloni all’occidentale. Oltretutto il kenjutsu, insieme al kendo e poche altre, è l’unica arte marziale che una donna può praticare con la gonna. Una gonna lunga e larga naturalmente, niente tubini o minigonne in pelle…

Partiamo da come era vestito un bushi giapponese.
Tralasciamo il bushi in armatura perché nel kenjutsu i colpi non si portano fino in fondo e non c’è bisogno di protezioni.
Giusto per conoscenza dirò che l’armatura giapponese si indossava su un vestito simile a quello con cui si praticano oggi le arti marziali, tranne i calzoni che erano stretti sotto al ginocchio.
Essa era costituita di tavolette di bambù laccate irrobustite da lamine di metallo, fissate con chiodi ribattuti, e unite fra loro da nastri di seta. Era fatta di varie parti che coprivano tutto il corpo, mani e piedi compresi. Era una copertura efficace e leggera ma più adatta a proteggere da colpi accidentali, perciò la tecnica si evolse da subito in modo molto raffinato. Ci si proteggeva di più con l’abilità che con la corazza.


L’abito classico di chi pratica il kenjutsu è composto da una giacca del tipo di quelle del judo o del karate e dai pantaloni giapponesi che si chiamano hakama, ai piedi si hanno calze di cotone o le babbucce dette tabi o si pratica a piedi nudi.
Sotto la hakama non si indossa niente (se non le mutande) o a piacere dei calzoncini. Alcuni mettono i calzoni lunghi del judogi, ma a me sembra scomodo perché fanno attrito con la hakama. Comunque a piacere.
La giacca si lega con una cintura, detta obi, che dovrebbe essere del tipo alto e molto lunga, ma può andare bene una normale da judo purché si abbia l’accortezza di prendere la più lunga: si dovrebbe riuscire a fare tre giri prima del nodo. È importante quando si metterà la katana in cintura per gli sfoderamenti. Se si trova una cintura un po’ elasticizzata ancora meglio.
La hakama si indossa per ultima sopra la giacca. Esistono numerosissimi modi di allacciarla: sia prima la parte posteriore e poi l’anteriore sia viceversa. E altrettanti sono i nodi della parte esterna delle fettucce della hakama. Non entro nemmeno nella disputa perché è come quella sul sesso degli angeli.
A me hanno insegnato a legare prima la parte posteriore e poi quella anteriore e a fare un nodo a farfalla.
Per motivi miei ho sostituito il nodo davanti con l’annodatura dietro la schiena, come spesso fanno in Giappone con tutte le cinture.
Fate come vi pare, l’unica cosa essenziale è che il nodo davanti non sia d’impiccio nel manovrare il fodero e la spada.
I colore dei vestiti varia secondo la scuola. La hakama in genere si trova blu per il kendo e nera per l’aikido, con un po’ di fatica si trova anche bianca.
Sfatiamo un mito. La hakama non è un vestito liturgico, mistico e iniziatico: sono solo i calzoni dei Giapponesi da quando hanno smesso di legarseli con delle ciocie sotto al ginocchio. Di conseguenza, e vale per la giacca o camicia che dir si voglia, il colore o la fantasia sono a libera scelta di chi l’indossa. Al massimo si può dire che sono dei calzoni eleganti, ma niente di più.
Ovviamente le hakama di lana o di colori vari o fantasia si trovano solo in Giappone, quelle che si possono comprare qui nei negozi specializzati sono il tipo per la pratica delle arti marziali, in cotone o misto. E sono dei colori detti.
Se volete seguire i colori della KJK dovrebbe essere nera o gialla, ma non ha nessuna importanza poiché i colori sono tratti dal mio mon che ho adottato, naturalmente, anche per la scuola. Se voi avete un vostro mon o ve lo fate, potreste usare i colori che preferite.

Quando insegnavo avevo ideato una soluzione per chi non potesse o non volesse spendere soldi nell’acquisto della hakama.
Si tratta di procurarsi un drappo di cotone, di un paio di metri di lunghezza per circa uno e mezzo di altezza, per esempio ricavandolo da un lenzuolo.
Poi quella stoffa si può drappeggiare in vita in due modi.
Il primo è all’indiana, ossia prendendo le due estremità dei lati lunghi e incrociandole davanti all’ombelico e poi fatte passare dietro fissandole rivoltando una volta o due il bordo della sottana che si viene così a formare.
Il secondo consiste nel posizionare un lembo del drappo in verticale davanti all’ombelico e arrotolare l’altro in panneggi via via sempre più stretti e centrati, poi arrotolare il bordo, in modo che la ricchezza sia tutta davanti e permetta il libero movimento delle gambe.
In entrambi i casi la cintura va ovviamente sopra, mentre con la hakama la cintura, per mettere la spada, si può raggiungere dalle aperture laterali dei calzoni. Quindi si mette sopra la giacca. Non sarebbe strano però metterla sopra la hakama come spesso facevano i Giapponesi.
Se guardate le stampe e le raffigurazioni storiche vedrete che prima di usare la hakama i Giapponesi si mettevano un drappo con cintura, dunque non mi sono inventato niente che già non esistesse.
Sopra si può usare una giacca da karate o simile o una maglietta, larga e a tinta unita, a cui sono state tolte le maniche o una camicia senza maniche e colletto, come per chi duellava nella nostra scherma.
Non è solo teoria: la consiglio perché io stesso mi vesto così quando mi alleno per poco e non ho voglia di vestirmi con la hakama e tutto il resto.
Sarebbe ammissibile anche praticare a torso nudo, ma non è consigliabile se si è in gruppo.

Il dojo

È il luogo di pratica. Ovviamente ognuno ha quello che si può permettere: da casa sua al parco, alla palestra ecc…
Il miglior pavimento, va da sé, è il parquet di legno, addirittura se al naturale e non lucidato, ma l’unica cosa davvero importante è che sia piano per non rischiare di farsi male e meglio se ci si può scivolare coi piedi.
Quello che mi preme dire è che, se non ci sono motivi particolari del gruppo di pratica, riserverei a una scelta personale se salutare il dojo quando si entra e quando si esce.
Il rispetto per il dojo si fa praticando con impegno e dimostrando cortesia verso i compagni e non con l’abitudine di fare un inchino frettoloso all’inizio e alla fine. O stando sempre cupi e seriosi.
Imprescindibili invece i saluti fra i partecipanti come dirò nella parte di tecnica individuale. ››

nota: il titolo del libro è ripreso da un tanka di Bashoo di cui ho già parlato nel post “Da Saffo a Shiki” sui tanka e i lirici greci.

R.P.

posteris memoria mea