Io
sarei dell’idea che le poesie sono come le barzellette, ossia non vanno
spiegate.
Ho
descritto il tentativo che faccio quando
scrivo una poesia di evocare sensazioni in chi legge e penso basti a
giustificare la mia proposizione d’esordio. Per di più mi viene l’orticaria
quando ricordo come ci erano spiegate le poesie a scuola e rifiuto ogni
presunta interpretazione “giusta”, corretta e adeguata di far capire quello
che l’autore voleva dire, come se non ne esistessero altre. Alcuni dicono che il
critico d’arte è un po’ come uno psicanalista perché ogni artista mette nelle
sue opere anche significati e valori in modo inconscio. Possiamo discutere se questo
atteggiamento del critico sia lecito, ma di sicuro solo il considerare questa
possibilità ci mette al riparo da ogni lettura “corretta” e “approvata”. Per
esempio, trovo insopportabile la lettura simbologistica, passatemi il termine,
della didattica americana per cui se il poeta descrive un’immagine in realtà
questa non è che un simbolo di qualcos’altro. In genere di molto palloso e mena
sfiga: la morte, il destino, l’infanzia, la figura paterna, la patria ecc...
Ho
già spiegato che un rapporto autoritario fra scrittore e lettore non mi
interessa. Mi può interessare la condivisione di certe sensazioni ma sono molto
più soddisfatto se chi mi legge mi confida che le mie parole hanno fatto
nascere un’idea, una riflessione o un
godimento estetico (questo sarebbe il massimo).
Però,
però... la poesia è una brutta bestia. Instilla nell’essere umano un irrazionale
senso di inferiorità, di inappropriatezza, di ingiustificata ignoranza.
Potreste trovare gente che comincia un discorso immaginifico sugli universi
paralleli avendo sentito quattro balle sulla meccanica dei corpi microscopici
nella trasmissione di Piero Angela, mettendo in relazione la fisica quantistica
con i livelli della coscienza dei chakra, e che di fronte a una poesia rimane
inebetito dicendosi incapace, inadeguato, insensibile a provare e descrivere
una qual si voglia reazione della sua mente. E non si sente nemmeno un fesso!
Solo che non è uno “ specialista ” del settore: è ignorante o ha studiato altro
e non spetta a lui dare dei giudizi. Vabbe’, con i problemi che ci sono al
mondo non vale la pena di prendersela.
Tornando
al problema iniziale, è vero, come è anche giusto e normale, che il lettore
possa vedere nei nostri versi qualcosa che non intendevamo dire, o forse sì ma
inconsciamente.
Il
mio pubblico di riferimento è mia sorella Antonietta che spesso mi dice di aver
letto nelle mie poesie cose cui non avevo pensato mentre scrivevo, ma che,
osservando da un altro punto di vista, ci potevano anche stare. Intendo dire
che potevano esistere non solo nella sua esperienza di lettrice ma anche nella
mia di scrittore.
Mi
rendo anche conto che a volte dei simboli si usano e se chi legge non li
condivide non potrà notarli, come accade per le citazioni che spesso finiscono
nelle mie poesie. Qui in effetti sarebbe giusto renderle esplicite, ma ritengo solo
dopo una domanda o una richiesta di chiarimento, altrimenti rischiano di essere
la chiave di lettura privilegiata dell’intera composizione, magari a scapito
delle reali intenzioni: mi ricordo un verso, una parola e la prendo e la offro
come uno dei tanti appigli possibili per cominciare a muovere l’azione poetica
attiva in chi legge. Non esiste un motivo strategico per cui ho citato: sono
solo rimasto vittima della mia stessa nemesi compositiva.
In
alcuni casi mi rendo conto che però è umanamente impossibile capire a cosa mi
riferisco, perché posso saperlo solo io. E non ho il diritto di giocare a
nascondino con chi mi fa la cortesia di leggermi (qui il problema è
statisticamente irrilevante però non impossibile).
Faccio
un esempio, forse il più importante. Nelle mie composizioni spesso compare una
donna, quasi sempre compare l’osservazione della natura, sovente sono la stessa
cosa, ma solo io posso saperlo. Spero che il più delle volte i versi non siano
così oscuri, ma non si sa mai.
Un
giorno parlerò, se capiterà (l’ho già fatto con i post sugli haiku e sui
lacerti greci), delle mie preferenze poetiche. Dei poeti contemporanei, fra
quelli che conosco poiché vi ho già detto che non sono un letterato, non ce n’è
quasi nessuno. Ho dedicato direttamente poesie a Saffo e Cyrano de Bergerac (ma
non sono più contemporanei da un pezzo), a Marina Cvetaeva, a Irving
Stettner. Uno dei pochi contemporanei che ammiro è Giorgio Caproni, ecco:
vorrei avere la sua semplicità.
Dunque
la Donna e la Natura sono temi ricorrenti, fondamentali delle mie composizioni.
Allora faccio il Pierino e vi spiego le barzellette.
Avrete
visto che ho messo delle immagini mie in posizioni di kenjutsu dopo i quattro
post sugli haiku, le due cose sono cominciate insieme.
Ho
scritto questa poesia che fa parte di “ Osservazioni Astronomiche e atre
notazioni naturalistiche ”.
Ti chiamo
la mia “ Ragazza d’oro ”,
da tanti anni sei la mia passione.
Per molto tempo non t’ho coltivata
distratto dalla mia indecisione.
Sei un biondo fior di croco nel candore,
che esce dal bulbo nella terra nera
e mostra a tutti che è nell’oscurità
che emerge la luce dell’Aurora.
Tu segni la mia speranza e la vita,
e a te, al tuo sorriso,
io dedico me stesso,
così dolcemente schiavo d’amore,
felice al tuo dominio di libertà.
(schema: AB CB DE CE Cee DC)
Devo ammettere che anche il lettore più lepido non
riuscirà a capire che la ragazza di cui si parla è la mia katana. Alle katana
si può dare un nome e alla mia ho dato quello di Kinko cioè Ragazza d’oro.
Perché questo nome? Per via del mon che mi sono
disegnato, il fiore di croco che vedete sulla home page del blog, poi perché la
saya, cioè il fodero, non è quello usuale laccato nero ma di bambù naturale,
soprattutto per il motto (più correttamente in araldica si dice l’impresa) che
si legge sopra al mon “ Figlia di luce brillò l’Aurora peplo di croco ”
(citazione omerica).
Comprai la mia spada trentacinque anni fa per un
prezzo davvero basso. Fu un caso fortunato o del destino: era spaiata dal suo
wakizashi (la spada corta), infatti ne comprai uno con la saya nera che
evidentemente era spaiato dalla sua katana. In tutto centomila delle vecchie e
care lire.
La katana rimase per molto tempo a far da
soprammobile: stavo facendo l’università, poi il lavoro, poi qualche tentativo
abortito di kendo. Insomma solo nel 1999 ho cominciato a usarla seriamente e
regolarmente studiando i kata del Kendo e dello Iaido e poi il Kenjutsu. Faccio
notare, perché ci tengo e in foto non si vede, che la casacca non è bianca ma
giallo chiaro e la hakama è nera, cioè non è il bianco e nero dell’Aikido con
cui non c’entro nulla.
Da quel momento non ho più smesso. Insieme è
arrivata la poesia e una maturazione anche a livello politico, infatti l’ultimo
distico è una citazione di Max Stirner, massimo provocatore di riflessioni
anarchiche, anche non condividendolo se non appunto nell’uso della provocazione
sull’idea di libertà e come metodo e modo di apertura mentale.
Vi siete smosciati? Ve l’avevo detto che le poesie
non vanno spiegate.
Fatto questo esempio dovrebbe essere chiaro quello
che intendo con quest’altra poesia che fa parte di “ Lykauges ”.
Poiché è
aprile e la primavera
bisognerà
che cominci a scrivere
una volta
per tutte questa poesia
e, come si
dice, “ cantar la donna mia ”.
Lei è
vera, ha nome, è di carne?
In qualche
modo, e nomi n’ha più d’uno.
Esiste
oggi nella mia vita? No.
Lei è
stata vera e a volte no,
in parte
d’altri in parte è stata mia.
È ricordo
e racconto e fantasia,
sensazione,
deità, allegoria,
desiderio
e languido volere.
Esiste in
ogni mio verso o dire,
ma non è
di questo mondo pare.
E forse
mai più o non ancora.
Dietro lei
si eclissano forme arcane,
fate di
bosco e di stagione,
è uno
strano animaletto che abita
i muri e
le strade della città.
Lei è ciò
che scrivo, ciò di cui parlo:
ma è così
difficile capirlo?
(schema:
ABCCDEEECCCBBBADDFFGG)