domenica 11 gennaio 2015

Chi scrive e chi legge


Io sarei dell’idea che le poesie sono come le barzellette, ossia non vanno spiegate.
Ho descritto il  tentativo che faccio quando scrivo una poesia di evocare sensazioni in chi legge e penso basti a giustificare la mia proposizione d’esordio. Per di più mi viene l’orticaria quando ricordo come ci erano spiegate le poesie a scuola e rifiuto ogni presunta interpretazione “giusta”, corretta e adeguata di far capire quello che l’autore voleva dire, come se non ne esistessero altre. Alcuni dicono che il critico d’arte è un po’ come uno psicanalista perché ogni artista mette nelle sue opere anche significati e valori in modo inconscio. Possiamo discutere se questo atteggiamento del critico sia lecito, ma di sicuro solo il considerare questa possibilità ci mette al riparo da ogni lettura “corretta” e “approvata”. Per esempio, trovo insopportabile la lettura simbologistica, passatemi il termine, della didattica americana per cui se il poeta descrive un’immagine in realtà questa non è che un simbolo di qualcos’altro. In genere di molto palloso e mena sfiga: la morte, il destino, l’infanzia, la figura paterna, la patria ecc...
Ho già spiegato che un rapporto autoritario fra scrittore e lettore non mi interessa. Mi può interessare la condivisione di certe sensazioni ma sono molto più soddisfatto se chi mi legge mi confida che le mie parole hanno fatto nascere un’idea, una riflessione o un  godimento estetico (questo sarebbe il massimo).
Però, però... la poesia è una brutta bestia. Instilla nell’essere umano un irrazionale senso di inferiorità, di inappropriatezza, di ingiustificata ignoranza. Potreste trovare gente che comincia un discorso immaginifico sugli universi paralleli avendo sentito quattro balle sulla meccanica dei corpi microscopici nella trasmissione di Piero Angela, mettendo in relazione la fisica quantistica con i livelli della coscienza dei chakra, e che di fronte a una poesia rimane inebetito dicendosi incapace, inadeguato, insensibile a provare e descrivere una qual si voglia reazione della sua mente. E non si sente nemmeno un fesso! Solo che non è uno “ specialista ” del settore: è ignorante o ha studiato altro e non spetta a lui dare dei giudizi. Vabbe’, con i problemi che ci sono al mondo non vale la pena di prendersela.
Tornando al problema iniziale, è vero, come è anche giusto e normale, che il lettore possa vedere nei nostri versi qualcosa che non intendevamo dire, o forse sì ma inconsciamente.
Il mio pubblico di riferimento è mia sorella Antonietta che spesso mi dice di aver letto nelle mie poesie cose cui non avevo pensato mentre scrivevo, ma che, osservando da un altro punto di vista, ci potevano anche stare. Intendo dire che potevano esistere non solo nella sua esperienza di lettrice ma anche nella mia di scrittore.
Mi rendo anche conto che a volte dei simboli si usano e se chi legge non li condivide non potrà notarli, come accade per le citazioni che spesso finiscono nelle mie poesie. Qui in effetti sarebbe giusto renderle esplicite, ma ritengo solo dopo una domanda o una richiesta di chiarimento, altrimenti rischiano di essere la chiave di lettura privilegiata dell’intera composizione, magari a scapito delle reali intenzioni: mi ricordo un verso, una parola e la prendo e la offro come uno dei tanti appigli possibili per cominciare a muovere l’azione poetica attiva in chi legge. Non esiste un motivo strategico per cui ho citato: sono solo rimasto vittima della mia stessa nemesi compositiva.
In alcuni casi mi rendo conto che però è umanamente impossibile capire a cosa mi riferisco, perché posso saperlo solo io. E non ho il diritto di giocare a nascondino con chi mi fa la cortesia di leggermi (qui il problema è statisticamente irrilevante però non impossibile).
Faccio un esempio, forse il più importante. Nelle mie composizioni spesso compare una donna, quasi sempre compare l’osservazione della natura, sovente sono la stessa cosa, ma solo io posso saperlo. Spero che il più delle volte i versi non siano così oscuri, ma non si sa mai.
Un giorno parlerò, se capiterà (l’ho già fatto con i post sugli haiku e sui lacerti greci), delle mie preferenze poetiche. Dei poeti contemporanei, fra quelli che conosco poiché vi ho già detto che non sono un letterato, non ce n’è quasi nessuno. Ho dedicato direttamente poesie a Saffo e Cyrano de Bergerac (ma non sono più contemporanei da un pezzo), a Marina Cvetaeva, a Irving Stettner. Uno dei pochi contemporanei che ammiro è Giorgio Caproni, ecco: vorrei avere la sua semplicità.
Dunque la Donna e la Natura sono temi ricorrenti, fondamentali delle mie composizioni. Allora faccio il Pierino e vi spiego le barzellette.
Avrete visto che ho messo delle immagini mie in posizioni di kenjutsu dopo i quattro post sugli haiku, le due cose sono cominciate insieme.
Ho scritto questa poesia che fa parte di “ Osservazioni Astronomiche e atre notazioni naturalistiche ”.

Ti  chiamo la mia “ Ragazza d’oro ”,
da tanti anni sei la mia passione.

Per molto tempo non t’ho coltivata
distratto dalla mia indecisione.

Sei un biondo fior di croco nel candore,
che esce dal bulbo nella terra nera

e mostra a tutti che è nell’oscurità
che emerge la luce dell’Aurora.

Tu segni la mia speranza e la vita,
e a te, al tuo sorriso,
io dedico me stesso,

così dolcemente schiavo d’amore,
felice al tuo dominio di libertà.

(schema: AB CB DE CE Cee DC)

Devo ammettere che anche il lettore più lepido non riuscirà a capire che la ragazza di cui si parla è la mia katana. Alle katana si può dare un nome e alla mia ho dato quello di Kinko cioè Ragazza d’oro.
Perché questo nome? Per via del mon che mi sono disegnato, il fiore di croco che vedete sulla home page del blog, poi perché la saya, cioè il fodero, non è quello usuale laccato nero ma di bambù naturale, soprattutto per il motto (più correttamente in araldica si dice l’impresa) che si legge sopra al mon “ Figlia di luce brillò l’Aurora peplo di croco ” (citazione omerica).
Comprai la mia spada trentacinque anni fa per un prezzo davvero basso. Fu un caso fortunato o del destino: era spaiata dal suo wakizashi (la spada corta), infatti ne comprai uno con la saya nera che evidentemente era spaiato dalla sua katana. In tutto centomila delle vecchie e care lire.
La katana rimase per molto tempo a far da soprammobile: stavo facendo l’università, poi il lavoro, poi qualche tentativo abortito di kendo. Insomma solo nel 1999 ho cominciato a usarla seriamente e regolarmente studiando i kata del Kendo e dello Iaido e poi il Kenjutsu. Faccio notare, perché ci tengo e in foto non si vede, che la casacca non è bianca ma giallo chiaro e la hakama è nera, cioè non è il bianco e nero dell’Aikido con cui non c’entro nulla.
Da quel momento non ho più smesso. Insieme è arrivata la poesia e una maturazione anche a livello politico, infatti l’ultimo distico è una citazione di Max Stirner, massimo provocatore di riflessioni anarchiche, anche non condividendolo se non appunto nell’uso della provocazione sull’idea di libertà e come metodo e modo di apertura mentale.
Vi siete smosciati? Ve l’avevo detto che le poesie non vanno spiegate.
Fatto questo esempio dovrebbe essere chiaro quello che intendo con quest’altra poesia che fa parte di “ Lykauges ”.

Poiché è aprile e la primavera
bisognerà che cominci a scrivere
una volta per tutte questa poesia
e, come si dice, “ cantar la donna mia ”.
Lei è vera, ha nome, è di carne?
In qualche modo, e nomi n’ha più d’uno.
Esiste oggi nella mia vita? No.
Lei è stata vera e a volte no,
in parte d’altri in parte è stata mia.
È ricordo e racconto e fantasia,
sensazione, deità, allegoria,
desiderio e languido volere.
Esiste in ogni mio verso o dire,
ma non è di questo mondo pare.
E forse mai più o non ancora.
Dietro lei si eclissano forme arcane,
fate di bosco e di stagione,
è uno strano animaletto che abita
i muri e le strade della città.
Lei è ciò che scrivo, ciò di cui parlo:
ma è così difficile capirlo?

(schema: ABCCDEEECCCBBBADDFFGG)

È più chiaro no? Altrimenti faccio seppuku con il wakizashi di Kinko.