domenica 25 gennaio 2015

Avanguardia, neo avanguardia, post avanguardia: un grande avvenire dietro le spalle


Va bene, lo ammetto: tratterò questo tema un po’ alla rinfusa e vediamo cosa ne esce.
Mi riferirò, entrando e uscendone, alla poesia ma in genere all’arte contemporanea.
Prima di passare alla letteratura, in modo attivo, e poi alla musica, come semplice appassionato, mi sono a lungo occupato di arte figurativa: come studente di architettura, poi come insegnante di architettura e di storia dell’arte, un po’ a tutti i livelli: da assistente in Facoltà in giù. Finché me l’hanno lasciato fare, ma questa è un’altra storia.
Allora, tutti sappiamo che l’arte contemporanea ha come sua connotazione il progressivo distacco dall’accademia e la nascita delle avanguardie. Da qualche decennio, almeno nelle arti figurative, è in corso un progressivo ripensamento delle esperienze avanguardistiche. Dovrei dire sarebbe in corso, poiché non so veramente cosa ne sia rimasto delle arti: posso affermare che l’architettura così come era intesa dai tempi delle piramidi fino a un momento degli anni novanta del secolo scorso non esiste più, è morta almeno per ora. Mi sembra che le altre arti non stiano meglio, ma facciamo finta che esse siano ancora vive. Da qualche parte lo sono certamente, io ne lamento la scomparsa nelle università e nella percezione comune veicolata dai mezzi di (dis)informazione.
Dato questo consolante quadro d’insieme, facevo giorni fa questa considerazione.
Da questo autunno ho conosciuto meglio l’opera lirica di Haendel che già consideravo uno dei più grandi musicisti della storia. Di passaggio dico che avevo scelto il primo movimento della Royal Fireworks Music come inno della Libera Associazione della Spada di kenjutsu, e la cosa è tuttora valida.
Sono giunto alla conclusione che Haendel sia il caposcuola dell’opera lirica così come essa si è venuta configurando in seguito. Haendel e Bach hanno ‘ inventato ’ la musica classica che ha fatto scuola e canone (in senso artistico, non musicale) partendo dalla musica tardo rinascimentale e barocca italiana e francese: Monteverdi, Vivaldi, Lulli (dunque ancora italiana) per ricordare i più conosciuti. Ritengo Haendel il più grande compositore lirico, insieme a Mozart, di sempre. E Mozart diviene il grande nel teatro italiano che è quando capisce che per dire qualcosa di davvero nuovo e allo stesso tempo immortale non deve seguire ogni moda ma tornare ai grandi maestri del periodo barocco, Haendel su tutti. Complici i consigli e le partiture della collezione del barone Gottfried van Swieten, prefetto della Biblioteca di Vienna e suo grande amico in tutti gli anni da quando Mozart si trasferì a Vienna fino alla morte. Se uno conosce le opere di Haendel può capire tutta la lirica successiva. E non mi stupisce che di Haendel si parli poco perché poi si dovrebbe cambiare il giudizio sui compositori ottocenteschi e successivi. Ma questo è un argomento tabù che scatenerebbe l’ira dell’appassionato rossiniano, verdiano, wagneriano e compagnia più o meno cantante. Ma sai quanto me ne frega.
Il rapporto fra Haendel e Mozart mi ha confermato nella decisione, peraltro subito dettata dal semplice ascolto, che Mozart sia da annoverare come appartenente alla musica tardo barocca, l’ultimo forse, e che non abbia nulla in comune con Beethoven. E questo scatenerebbe le ire dei Conservatòri, ma sai quanto me ne frega. E anche dei massoni ma pazienza.
Il nostro Haendel naturale sarebbe stato Pergolesi che però, per sua e nostra sfortuna, è morto a soli ventisei anni.
Opinione assolutamente personale di un analfabeta musicale, nel senso che non possiedo nessun titolo di studio cosiddetto abilitante, ma...
Cosa voglio insinuare con queste considerazioni? Dico che da Monteverdi, uomo che si potrebbe annoverare come ancora rinascimentale o nella transizione fra tardo Rinascimento e inizi del Barocco, passando per Lulli, Vivaldi, Pachelbel, Bach, Haendel, e poi tutti quelli che anche con fatica hanno cercato di interpretare in modo inedito la musica che ereditarono: Pergolesi, Hasse, Piccinni, il sopravvalutatissimo Gluck, Paisiello, Salieri per dire solo quelli che mi vengono in mente adesso, fino al grande Wolfgang Amadè (non Amadeus!) Mozart, hanno lavorato all’interno di un’esperienza che si può definire comune, con tutte le differenze che ci sono fra epoche e personalità diverse. E non è solo questione di temperamento del clavicembalo e scale equabili. Ma persino negli altri, pur nel disastro lirico successivo, ogni tanto ci scappa qualche riferimento ai maestri e non solo a Mozart (troppo facile... o troppo difficile?). Almeno fino a Puccini ogni tanto si trova qualcosa di semi vivaldiano o semi haendeliano, in dosi omeopatiche ovviamente.
Sarà un caso che mentre ciò succede nascono le avanguardie in tutte le altre arti? È  indubbio che ogni arte ha il suo percorso e ho usato la musica per seguire il filo dei pensieri, ma a un certo punto la deriva accademica si è resa insostenibile. Ma perché la tradizione non aveva più niente da dire o per il traviamento dalla linea di demarcazione sulla quale essa tradizione aveva proceduto?
Sulla musica ho già detto che sono semplici impressioni di un appassionato, ma sull’architettura, a cui ho dato gli anni migliori, come si dice, della mia vita (inutilmente sembra) sono sicuro che sia stato per il secondo motivo, la famosa “seconda che hai detto”.
Riassunto: la storia dell’arte si divide in periodi di stile o canone e periodi di avanguardia.
Nei primi si lavora su alcuni punti condivisi per giungere a una forma, il canone appunto, che sembra intoccabile e non più operabile. Nei secondi si va alla ricerca di nuovi punti condivisibili, forse condivisibili.
La questione non è stabilire che un periodo sia meglio di un altro: è il normale avvicendarsi dell’evoluzione dell’arte.
I problemi nascono quando l’intoccabilità del canone è presa alla lettera, un caso di scuola palmare è lo sviluppo della tipologia del tempio nella Grecia classica: da anàtema per gli Dei a forma in tutto completata (addirittura in due canoni: dorico e ionico) nel giro di un secolo.
Ovvero quando lo scatenarsi dell’energia avanguardistica non approda a nessun punto condiviso e si auto condanna a una avanguardia parossistica e perenne.
Be’ noi siamo ancora in questa fase coll’esito, anche etimologico, della morte dell’arte a disposizione di vari altri interessi non solo economici, ma anzi direi soprattutto politici, come sempre. Questi interessi sono la cicuta che le arti stanno più o meno consapevolmente o inconsapevolmente prendendo, piamente o empiamente prendendo. Da ciò si deduce che l’arte non è socratica, cioè non è al momento cosciente.
Del resto, quante correnti di pittura, scultura, poesia, architettura, musica {classica[?] jazz, pop (musica?), rock et alia...} sono esistite ed esistono ciascuna per proprio conto, se non si dicono i morti a vicenda?
Se nei periodi di avanguardia si esprime la ribellione verso ogni cosa che paia possa limitare l’espressione artistica e, ripeto, non è il caso di stabilire se ciò sia un bene o un male, è semplicemente necessario in quel momento, credo però che lo stabilirsi in una dimensione di sperimentazione incontrollata e non approfondita finisca per diventare una specie di capriccio infantile, per cui si dice no a tutto, e un trabocchetto per cui, se è lecito fare ogni cosa ci sembri innovativa, se ne deduce che ogni cosa, per definizione, va bene.
Oppure si stabiliscono dei paradigmi di valutazione assolutamente estemporanei e arbitrari. O addirittura si possa verificare il paradosso che potendo fare tutto si decida di darsi delle regole le più rigide possibile. Quest’ultimo caso si capisce meglio riferendosi alle arti figurative: scelta di soli volumi puri in architettura oppure astrattismo iperconcettuale in pittura.
In questa temperie di incertezza hanno buon gioco la decrescita culturale, soprattutto della propria capacità critica per cui qualcosa è bello non per nostra ponderata adesione ma perché alcuni critici o giornali dicono che quello è un grande artista o un sommo poeta, che quello è il modo giusto di fare arte. Così facendo l’individuo si accostuma a un conformismo che gli sarebbe di fatto completamente estraneo, ma che assorbe in un anelito di adeguamento.
Attenzione: questo non fa nascere solo dei sensi di colpa per la propria ignoranza, anche in questo si diviene antisocratici perché l’uomo intelligente è quello che sa quello che ignora e quali sono i suoi limiti culturali e cerca di porvi rimedio non quello che crede di sapere perché sa quello che chi comanda ha deciso che deve conoscere e apprezzare, ma appunto è un pericolo per la libertà di ognuno. E intendo libertà culturale sì ma soprattutto libertà politica, libertà in una parola.
Una definizione di intelligenza abbastanza accettata è fare la cosa migliore in un dato contesto. Se si annulla il contesto di riferimento per ribellismo da frustrazione viscerale non se ne esce più, come temo faccia molta parte dell’arte contemporanea. Se si considera arte ciò che ci viene più facile non usciremo mai da una dimensione adolescenziale anche se faremo cose molto complesse, poiché non saremo maturi e consapevoli.
Ovviamente non sta a nessuno oltre all’artista stabilire in quale contesto decidere di agire con la propria ricerca, ma occorre ricordarsi che, se non si deve passare un esame, esiste sempre nel lettore la possibilità di rifiutare il contesto e la produzione, e ciò non solo è perfettamente legittimo ma anche auspicabile se non si vuole un mondo di zombie decerebrati e assuefatti a ogni cosa e in attesa del campanello pavloviano per farsi venir fame.
Credo sia giunta l’ora di guardare allo spirito avanguardistico come a qualcosa che punti davvero a una ridefinizione dell’arte e non solo alla distruzione del passato, che porti al superamento di un’originalità inedita che ormai si vede da decenni (rendiamocene conto!) e già si sta trasformando in canone di conformismo rivoluzionario, in luogo comune, in posizione di rendita.
Guardate che è l’unico modo perché ciascuno possa avere uno spazio nell’arte e non solo quelli col cognome giusto o gli amici degli amici. Avere un terreno condiviso di confronto è l’unica garanzia ancora possibile perché le differenze, le originalità in un parola i meriti possano emergere, l’alternativa è il benpensiero del politicamente corretto, dell’economicamente etero diretto (in soldoni: che fa comodo a chi ci guadagna), della delega delle proprie facoltà di scelta.
Ho parlato di arte, di poesia, di politica e delle nostre vite.

Un cielo sopra Milano