domenica 26 luglio 2015

Per un usignolo



Ho appena finito di leggere le poesie di John Keats (1795-1821), una delle mie tante lacune letterarie.
Devo dire che purtroppo il mio giudizio su di lui resta sospeso perché l’ho letto nella pessima traduzione degli Oscar Mondadori (ristampa 2015, 1a edizione 1986). Non è specificato di chi sia la traduzione, si presume del curatore ma non importa, come si usa dire: si dice il peccato e non il peccatore. Non ho timore a definirla pessima perché, per quanto non conosca bene l’inglese e men che meno quello, a quanto è affermato, ancora settecentesco di Keats, quando in una traduzione mancano delle parole presenti nell’originale, e fin lì ci arrivo anch’io ad accorgermene, o ci sono versi inesistenti nell’originale, non vedo come altrimenti definirla.
A una prima vista mi pare che Keats sia il peculiare poeta e scrittore degli anni di passaggio fra il tardo Neoclassicismo e le prime mode del Romanticismo. Credo che questo un po’ gli noccia poiché appesantisce il suo innegabile talento, da un lato di eccessi di richiami classicisti e dall’altro di minuzie descrittive tipiche della letteratura romantica, così che spesso i versi più potenti e meglio riusciti si perdono nella ridondanza di aggettivi, di descrizione della flora stagionale, in una sorta di continuo preambolo estetico che diluisce l’efficacia delle sue composizioni.
Poi farò un esempio anche se non è di questo che voglio parlare.
È un problema che tocca la sensibilità degli autori inglesi e lo riconosco bene grazie a uno dei miei grandi amori letterari (e non solo) dichiarati: Jane Austen. Anche nei libri della mia Jennie (a cui ho dedicato una poesia naturalmente), subito dopo ‘ Ragione e sentimento ‘ e ‘ Orgoglio e pregiudizio ’ entrano qui e là, suo malgrado non celato, delle concessioni alla moda romantica e si vede subito che è lei la prima a non esserne convinta: torna subito al suo stile esatto, essenziale, ironico e irresistibilmente british.
In effetti, alla fine di questa edizione è pubblicato uno stralcio di un saggio di Jorge Luis Borges (“Altre inquisizioni”, Feltrinelli, 1963) ed è su questo che vorrei fare alcune riflessioni.
La poesia di cui parla Borges è una delle più famose di Keats “ Ode a un usignolo ”.
A me piacciono molto di più le ultimissime quando, non a caso, era fidanzato con la signorina Fanny Brawne. Era un uomo, per quei tempi, del tutto adulto e lei sarebbe stata l’amore della sua vita. Pensate che bella storia avrebbe scritto Jane sul futuro matrimonio fra John e Fanny (secondo voi quante sterline di rendita sarebbe stato valutato Mr. Keats?).

L’ode è una composizione di otto stanze di dieci versi endecasillabi, leggibili al solito come decasillabi, con inserzione all’ottavo verso di un settenario, anche qui leggibile come un senario, secondo lo schema generale ABABCDEcDE.
Riporto ai fini della discussione le stanze che servono cioè la sesta e la settima. Le metto in italiano e nella traduzione che possiedo,  perché poi quello che dirà Borges non c’entra con problemi di traduzione né della sua qualità. Però se qualcuno ne dispone di migliori sarebbe interessante se ce le facesse conoscere.

6
Nel buio ascolto; io che spesso
ho quasi fatto l’amore con la facile morte,
l’ho chiamata coi versi più teneri della mia poesia,
l’ho pregata perché nell’aria si portasse via il mio respiro
e mai come adesso m’è sembrato ricco il morire,
spegnersi a mezzanotte senza dolore,
mentre tu butti fuori l’anima
in un’estasi stupenda!
Tu canteresti ancora, per le mie orecchie inutili-
Per me, una semplice zolla davanti al tuo requiem altissimo.

7
Non sei mica nato per morire, tu uccello immortale!
Generazioni di affamati non ti calpestano;
e la tua voce che ascolto in questa notte fuggente
fu ascoltata già da re e da villani:
forse è lo stesso canto che il sentiero trovò
del cuore di Ruth, quando malata di nostalgia,
pianse in mezzo ai campi stranieri;
lo stesso forse che tante volte ha affascinato
magiche finestre, aperte sulle schiume
di mari pericolosi, in incantate terre deserte.

Ho recuperato almeno la punteggiatura... È chiaro che il ‘ tu ’ a cui Keats si rivolge è l’usignolo.
Già, ma quale usignolo? Eh sì perché pare che i critici si ponessero soprattutto quel problema.
Scrive Borges nel suo saggio: “ Nella sua monografia su Keats, pubblicata nel 1887, Sidney Colvin avvertì o inventò una difficoltà nella strofa di cui parlo. Copio la sua curiosa affermazione: ‘ Con un errore di logica, che a parer mio è anche un errore poetico. Keats oppone alla fugacità della vita umana, per cui intende la vita dell’individuo, il perenne durare della vita dell’uccello, per cui intende la vita della specie ’. Nel 1895 Bridges ripeté l’accusa; F.R. Leavis l’approvò nel 1936 e vi aggiunse la nota ‘ Naturalmente, l’errore racchiuso in questo concetto prova l’intensità del sentimento che lo generò ’. Keats, nella prima strofa del poema, aveva chiamato driade l’usignolo; un altro critico, Garrod, con tutta serietà si valse di tale epiteto per sentenziare che, nella settima, l’uccello è immortale perchè è una driade, una divinità dei boschi. Amy Lowell scrisse, più felicemente: ‘ Il lettore che abbia un briciolo di sentimento fantastico o poetico intuirà immediatamente che Keats non si riferisce all’usignolo che cantava in quel momento, ma alla specie ’ ”.

???

Credete che sia finita qui? No! Borges, anziché dire ai critici l’unica cosa sensata ai loro deliri e cioè: “ Smettetela di fumare quella merda o almeno cambiate lo spacciatore! ” passa a dimostrare che in quei versi Keats, senza saperlo, aveva anticipato niente po’ po’ di meno che la nozione di archetipo di Schopenauer. Poi divide, secondo Coleridge, l’umanità e i popoli fra aristotelici e platonici e ci informa che gli inglesi sono aristotelici. Conclude “ Il reale per quella mente (aristotelica) non sono i concetti astratti, ma gli individui; non l’usignolo generico, ma gli usignoli concreti. È naturale, forse inevitabile, che in Inghilterra non sia compresa rettamente l’Ode a un usignolo ’.

!!!

E poi si lamentano che la gente si allontana dalla poesia e ricorda con fastidio quando doveva studiarla a scuola?
Scusate, ma io non ce la faccio a prendere in considerazione seriamente delle puttanate del genere.

Vi dico quel che ho pensato io quando sono arrivato ai versi incriminati.
Forse sapete che ho dedicato un post a Shiki, un poeta giapponese della fine dell’ottocento che si cambiò il nome in Shiki appunto, che significa cuculo,  perché si dice in Giappone che il cuculo canta fino a sputare sangue e morirne. Shiki era tubercolotico e si volle paragonare al cuculo per indicare che avrebbe poetato fino alla fine.
Quando ho letto il verso “ Mentre tu butti fuori l’anima ” ho subito pensato a Shiki e al fatto che Keats si riferisse a un detto simile in Gran Bretagna o a un senso analogo ma riferito all’usignolo. Del resto si dice che il canto dell’usignolo accompagni serenamente nel momento della morte. I versi riprodotti confermano questa accezione abbondantemente.
Ora, la poesia è stata scritta nell’aprile del 1819, nel febbraio del 1821 John Keats moriva coi polmoni devastati dalla tubercolosi. Ventidue mesi dopo. Nel 1820, conscio della sua situazione di salute, propone alla sua Fanny di lasciarlo, rompere il fidanzamento e pensare a sistemarsi con un altro, e lei rifiuta.
Secondo voi cosa aveva in mente Keats quando parlava dell’usignolo? Mr Nightingale? La  specie? Una nuova sistemazione dell’ornitologia? L’archetipo usignolesco? Cosa ne avrebbe pensato Aristotele o Platone? L’aspettativa di vita di una Driade?
Ma questi si chiedono persino se abbia o no sentito davvero un usignolo cantare! Ma che cazzo sarebbe cambiato se ‘sto uccello della malora stava cantando mentre lui componeva o se fosse stato un ricordo di un generico usignolo o l’idea stessa di un usignolo che canta? Cosa? Fuori dai deliri di questi frustrati che non hanno mai composto niente nella loro vita e non sanno cosa vuol dire?
E Borges che gli va dietro perchè ha paura di fare la figura del sudamericano ignorante, attento a cosa fanno nei licei degli States... E, fra l’altro, usa una terminologia non corretta: il componimento è un’ode, s’intitola così, e non un poema (maledetta preoccupazione di sembrare americano: poem è poesia in inglese) e le sue parti si chiamano stanze (lo sarebbero anche se fosse un poema), la strofa è una parte di una poesia a esempio lo schema iniziale ABAB dell’ode stessa. Ma questo è il meno.

Il problema è che leggendo e suggerendo di leggere la poesia come hanno fatto quegli stramaledetti critici accademici, si perde il valore della parola, del verso e tutta, tutta, la dimensione umana.
Se non avevano un cazzo da dire potevano starsene zitti e continuare a rubare lo stipendio all’università o alla casa editrice.

Per finire senza bile vi faccio alcuni esempi sulla versificazione di Keats. Sempre usando la stessa composizione.
Prendiamo la quinta stanza.

5
I fiori che ho intorno non li vedo,
e neppure l’incenso dolce che pende sui rami,
ma, nell’oscurità profumata, intuisco ogni dolcezza
con cui il mese propizio rende ricca
l’erba, il bosco, e il selvaggio albero da frutta;
il biancospino, e l’arcadica eglantina,
le viole presto appassite sepolte tra le foglie;
e la figlia più grande del maggio maturo,
la rosa muschiata in boccio, piena di vino di rugiada,
casa sussurrante d’insetti nelle sere estive.

Dal verso secondo fino al settimo è un erbario, un breve dizionario di specie che allignano nella celeberrima campagna inglese. Ci manca solo che ci dica di che colore sono i fiori provenzali della tappezzeria della zia Maggie. Poi, improvvisamente, gli ultimi tre di potente poesia ed evocazione, con l’ultimo che è degno di Saffo.
È questo che intendevo per inquinamento romantico.
Me la vedo già quella saccente e supponente ragazza di Emma Woodhouse che sospira mentre s’abbandona alla lettura, ma intanto sbircia in giardino per vedere se Keats ha dimenticato qualche ‘ essenza ’ tipica del mese di maggio nelle contee centrali dell’Inghilterra.

Però Borges nel suo saggio conclude con una bella cosa: “ L’usignolo, in tutte le lingue del mondo, gode di nomi melodiosi: nightingale, nachtigall, ruiseñor... ”.
Be’, in milanese si dice rusignöö (con la esse dolce e l’accento ovviamente sulle due ultime ö dolci [e, lo dico per i non italiani, con gn pronunciato come ñ]) e nelle vostre lingue e dialetti?


 L'usignolo della zia Maggie