Quest’ultimo
post è piuttosto un postino, infatti vi porterà alcune notizie spicciole su
altri aspetti generali della composizione. A differenza di quelli già enunciati,
i seguenti sono propri del fare compositivo nella sua forma più pratica, della
quotidianità della progettazione.
Quelli
che mi vengono in mente, e di certo ne dimenticherò qualcuno ma voi sicuramente me lo farete notare (dato
l’incredibile successo che ha accolto questi post architettonici... Ma cosa vi
dovevo dire per interessarvi? Se George Clooney ha ancora la sua villa a
Laglio?), sono, in ordine sparso: il rapporto con gli altri edifici, il
rapporto col sistema viario, i fili architettonici, e il rapporto con gli stili
storici, le regole di ingresso e i percorsi.
Vi
ho messo anche tante figure...
Una
precisazione preliminare. Gli indici urbanistici (indice di copertura: metri
quadrati/metri quadrati che definisce l’area dell’edificio, indice di fabbricabilità:
metri cubi/metri quadrati che dà l’altezza dell’edificio ecc...), le funzioni
(dormire, mangiare, igiene e ogni altra...), i requisiti (rapporto di
aeroilluminazine, ricambio d’aria, superfici minime ecc...), le norme di
costruzione (distanze, ombre portate, qualità ecc...) non devono essere
considerate elementi della composizione architettonica in senso stretto, in
sostanza perché gran parte di essi fanno parte della normativa da rispettare.
Certo possono essere usati come linee guida, o perché ci si può ragionare su,
come nelle funzioni, o per scelta, a esempio il già citato asse eliotermico
delle siedlungen. Una scuola di progetto le faceva assurgere a elemento
primario della composizione: il Funzionalismo (una variante ancora più scarna
del razionalismo), da non disprezzare poiché un buon edificio funzionalista è
meglio di tante minchiate presuntuose d’arte, poetica e complessità. Almeno nel
funzionalismo non si può nascondere niente.
Sembra
banale ma non lo è, quando ci si accinge a progettare ci si deve chiedere come
il nostro edificio o i nostri edifici si porranno con quelli esistenti.
Naturalmente i modi sono tantissimi e non si possono nemmeno enunciare di
sfuggita. Alcuni elementi di decisione potranno essere sia la tipologia che
costruiamo sia la volumetria oppure l’importanza storica degli edifici
circostanti o una singola emergenza. Con essi ci si potrà confrontare o no,
senza cadere in un delirio di preminenza
ma senza mettersi al servizio con senso di inferiorità. La cosa determinante
per un buon progetto è la misura del nostro intervento e la giusta soluzione.
Faccio un esempio. Se costruiamo vicino a un grande monumento possiamo anche
porci ‘ di fronte ’ senza remore, ma non ha senso fare a gara a chi sia più
importante. Se ci pensate non può che essere lui il più importante: se non lo
fosse sarebbe già demolito. Del resto se per rispetto facciamo un intervento
non curato e privo di ogni merito, il monumento non ne sarà per nulla
valorizzato. Dopo decenni in cui si sono tolte delle casacce o addirittura le
baracche intorno ai grandi monumenti non ha senso metterci una nuova
costruzione bislacca e senza decoro.
Molte
volte invece il problema è opposto, cioè gli edifici intorno sono brutti o
anonimi. In quel caso il nuovo intervento ha il compito preciso di essere
migliore e non cercare nessuna relazione con essi, ma semmai di cominciare con
la nuova composizione il dialogo storico dell’architettura in quell’area.
Comprenderete
che è davvero impossibile cercare di essere esaustivi su un tale argomento e
anche dire di più senza parlare nello specifico di un progetto. E scegliere un
progetto esemplificativo è fatica sprecata: tutti sono utili al discorso.
Voglio
fare un caso un po’ particolare di rapporto fra edifici: l’Acropoli di Atene. Si
dice sempre che nell’architettura greca manca la disposizione degli edifici che
in qualche maniera li renda correlati fra loro. Ogni edificio si costruisce in
un certo punto e, diciamo così, se ne frega degli altri. Ogni edificio si
richiuderebbe in sé. Diventa quindi molto interessante studiare, ‘ sentire ’ lo
spazio fra un edificio e l’altro, perché è lì che avviene il loro rapporto in
assenza di una scelta compositiva esplicita.
Le
Corbusier per primo disse, o almeno così afferma la sua mitografia, che tutti
gli edifici dell’Acropoli sono convergenti verso un punto che corrisponde ai
Propilei.
Il
secondo punto è il rapporto col sistema viario. Detto così la scelta è solo
duplice: o costruire in pizzo alla via o orientare in modo diverso gli edifici.
È un caso che abbiamo già visto. La questione si fa ancora più interessante se
si considera che normalmente un sistema viario produce un tessuto urbano,
storico o di nuova ideazione. Il problema è di costruire un tessuto urbano
nuovo, di continuare l’omogeneità di un tessuto storico, o ricucire gli strappi
nel tessuto esistente, dovuti sia a nuovi interventi che non ne tengano conto
sia a demolizioni (sono ancora moltissime in Europa quelle belliche) o di fondi
non ancora costruiti o originariamente indirizzati ad altra funzione (caso
molto comune questo: dismissione delle aree industriali, ex stazioni
ferroviarie, terreni demaniali ‘ dimenticati ’...).
A
questo proposito vi indico una planimetria in cui si vede l’intervento
dell’urbanistica fascista, i cosiddetti sventramenti, sul tessuto storico negli
anni trenta. È piazza San Babila a Milano.
Ne
esce una piazza troppo frammentaria (in giallo ho evidenziato le lacerazioni)
per funzionare e chiunque la conosca sa quanto sia brutta.
La
scelta che si pone al progettista è di recuperare (o no: è una scelta possibile
anche questa) la continuità urbana senza riempire ogni buco come che la sia.
Nel
caso in cui l’edificio sia all’interno di un lotto lungo una strada al rapporto
con l’asse viario si aggiunge subito il confronto (o no, anche qui) con gli
edifici esistenti. Si capisce che la bellezza di una composizione
architettonica consiste nel tenere insieme tutti questi fili e tutti questi
gomitoli che si inseguono e si attorcigliano sempre.
Anche
qui gli esempi si sprecano. A volte l’adesione alla regola della via è
abbastanza acritica a volte ci sono possibilità di ricerca a anche qui. Ho in
mente la casa Azuma di Tadao Ando, a Tokyo del 1976, Questa casa monofamiliare ha
la facciata sulla via ma all’interno la composizione è giocata su un piccolo ma
bellissimo patio. vi offro le planimetrie, una sezione e un'assonometria, una foto e un'elaborazione tridimensionale.
Un
altro esempio che non si può tralasciare è la Casa Rustici di Giuseppe
Terragni, del 1933, in corso Sempione a Milano. Qui con perfetta aderenza
modernista, Terragni costruisce sulla via una facciata, e lo è sotto ogni
profilo, che è composta da terrazzi e aperture. Dietro questa pelle si
sviluppano i due edifici veri e propri secondo uno schema a semi corte. È un
caso in cui l’architettura razionalista aderisce allo stesso tempo sia la
dettato stradale sia alla sua indipendenza, destinando al primo una funzione
(rapporto con l’esterno) e all’altro la distribuzione dei corpi di fabbrica.
Ecco la planimetria, una foto della facciata su corso Sempione e un particolare
dei terrazzi.
Terzo
argomento, e forse il più disciplinare, è il rapporto con i fili
architettonici. Con filo architettonico si intende la prosecuzione di un
edificio o di una sua parte, prosecuzione ideale si intende, ma che permette di
determinare le dimensioni del progetto. Questo lavoro è svolto soprattutto in
pianta, ma può essere fatto anche negli alzati (prospetti e sezioni): un caso
davvero comune è uniformare le linee di gronda o i marcapiani. Un esempio è via
Dante a Milano, caso rarissimo in città di corrispondenza dei fili di gronda e
di piano, ma era previsto espressamente nel bando di concorso. Vi mostro una
foto dove ho evidenziato alcuni fili delle facciate.
Per
i non milanesi, via Dante va dal Cordusio a Foro Bonaparte. In questa veduta si
guarda dal Castello, cioè Foro Bonaparte, verso il Cordusio.
Il
dimensionamento sui fili avviene, dicevo, soprattutto in pianta. Del resto ogni
progetto è elaborato in massima parte in pianta perché è la sezione
(orizzontale) che permette di immettere il maggior numero di dati rispetto a
ogni altro disegno di architettura. E poi in genere se funziona in pianta
funziona comunque negli alzati. Questo è un principio di prassi architettonica
mai smentito se non dalla somaraggine o asinità, che dir si voglia, dei
progettisti.
È
difficile dire quali fili vanno tenuti, lo suggerirà il sito e gli edifici
esistenti (qui ormai una cosa finisce nell’altra). Ancora più difficile trovare
esempi: a volte i fili sono molto concettuali e non appariscenti. I fili
possono essere reali, ossia dettati dall’esistente, o ideali, cioè nascenti da
una teoria di proporzione o di composizione.
Ecco
alcuni casi.
La
villa Capra detta La Rotonda di Andrea di Pietro della Gondola detto il
Palladio è un esempio di fili ideali. Vi propongo planimetria e prospetto e una
bella foto di questo capolavoro del 1566.
Altro
caso di fili progettuali in parte derivati dall’esistente e in parte cercati
all’interno del progetto stesso sono la proposta di sistemazione di piazza
Cavour a Milano di Giuseppe de Finetti, del 1942. Ecco una prospettiva in cui
evidenzio in rosso alcuni fili, gli altri li potete identificare da voi.
Per
ultimo un caso di assoluta mancanza di fili di riferimento. È una scuola di
Roma e non menziono gli autori, perché si dice il peccato ma non il peccatore,
e comunque non la mostro per una polemica personale. Qui non han beccato un
filo nemmeno per sbaglio.
Sempre
da de Finetti il progetto della costruzione dei padiglioni della Fiera di
Milano, del 1946. Qui è molto evidente come ogni edificio si proponga come filo
per l’ordinamento degli altri. Li ho evidenziati in rosso, solo alcuni gli
altri scopriteli voi.
L’ultimo
tema è il rapporto con lo stile. Intendo qui riferirmi alle vicende dei nostri
anni. Il rapporto con gli stili della storia è già stato accennato nel post sul
rapporto con la storia dell’architettura appunto, solo accennato per la vastità
dell’argomento.
Nel
1980 vi fu una purtroppo celebre ed esiziale biennale di Venezia dove alcuni
architetti proposero il ritorno a stilemi storici. Se siete sopravvissuti alla
ricerca che vi proponevo nel post scorso, potete, supportati vi consiglio da
una boccia di vino, googolare architetture post modern e vedrete la seconda
faccia della morte architettonica declinata al delirio. Siamo nel campo della
psicopatologia: tenete lontani i bambini e le persone iper sensibili,
soprattutto alla bellezza artistica. Declino ogni responsabilità sulle
conseguenze fisiche o mentali che potreste derivarne.
Vi
offro come esempio un caso interessante di uno dei profeti del post modern
(direttore della suddetta biennale): la Moschea di Roma di Paolo Portoghesi, del
1984-95, il quale un bel dì decise di giocarsi una meritata fama internazionale
di storico dell’architettura (e anche nazionale perché l’Italia è sempre stata
una delle scuole più importanti di storia dell’architettura) per provare
l’ebbrezza dello sproloquio progettuale. Questo, che è uno dei suoi primi
progetti in tal senso, lo trovò particolarmente ispirato e ne risultò un bel
lavoro che prometteva un futuro migliore. Fu ispirato dal profeta Maometto?
Direi di no. Così a occhio direi che fu ispirato da Pierluigi Nervi, cioè dal...
Razionalismo. Voi che ne dite? Poi, come non seguì la via del profeta Maometto
così, non seguì più, purtroppo per noi, quella di Nervi...
Ecco
una seducente planimetria e un particolare delle strutture.
Finisco
con un esempio di rapporto con lo stile, o meglio con la storia, di un tipo
particolare. È il museo che contiene l’Ara Pacis a Roma, di Richard Meier del
2007.
Qui
il rapporto con lo stile, e chi se ne intende un po’ di arte sa quanta
importanza ebbe il rilievo scultoreo dell’Ara Pacis di Augusto, non è per
progettare ma per rapportarsi nella conservazione.
Vi
mostro le planimetrie, i prospetti e due vedute dell’esterno e dell’interno.
Questo
edificio è ancora oggetto di ferocissime critiche, a mio vedere ingiustificate,
a meno di avere un appartamento con vista sul Tevere che l’improvvido museo ha
negato all’improvviso.
È
giusto che ogni progetto sia valutato e criticato, e con esso l’autore, e anche
sul museo di Meier si possono avanzare dei dubbi. Per me è troppo distante dalla
leggerezza che conoscevo di Meier, ma l’uso della pietra e dei volumi murari
non corrispondenti alla verità costruttiva (cosa ormai normale nei progetti di
oggi) può essere stato suggerito proprio dall’oggetto eccezionale che contiene
e dunque essere meno gratuito qui che altrove, anche se non particolarmente
riuscito. Si può eccepire sui brises soleil, pur necessari per la
conservazione, oppure sulla differenza di quota del pavimento che circonda
l’ara. Ma insomma stiamo sempre parlando di una buona architettura e di un
edificio che non costituisce un danno per la città. Teniamo sempre presente che
la volumetria e tutto quello che contorna il sito del monumento è stato chiesto
dalla committenza: bisogna sapere quali sono le responsabilità del progettista
e quali quelle della committenza.
Gli
ultimi due aspetti della composizione architettonica su cui vorrei fermare al
vostra attenzione sono le regole di ingresso e i percorsi. Qui siamo al livello
ultimo delle scelte progettuali, all’interno del processo di distribuzione nel
quale si dà la forma reale al progetto.
Le
regole di ingresso sono in sostanza i luoghi attraverso i quali si può accedere
al nuovo intervento o accedere fra una parte e l’altra di esso. Dunque i punti
da cui si passa dal tessuto urbano esistente, e come e in quale parte del
progetto. E così per tutte le parti dell’insieme compositivo. Cioè non è solo
una questione di decidere dove mettere le porte e i cancelli.
Stabilendo
le regole di accesso e distribuendo i vari ambienti e locali si istituiscono i
percorsi. Un esempio di percorso, all’interno di una abitazione può essere:
ingresso-cucina, camera da letto-bagno, soggiorno-pranzo-cucina e così anche
per altre funzioni non residenziali. Qui esiste una regola, una volta tanto,
per giudicare se i percorsi sono corretti.
Il
percorso migliore è il più breve, con meno angoli (cambi di direzione) e meno
intersecazioni con altri percorsi. È un’analisi che andrebbe svolta
scrupolosamente perché dà sicuro valore alla progettazione e i cui effetti si verificano
nella realtà immediatamente in termini di comodità o disturbo e fatica.
E
con questo termino il mio accenno agli
elementi della composizione architettonica.
A
questo punto vi aspettereste i soliti rimandi poetici, ma mi è molto difficile
trovare delle corrispondenze puntuali: evidentemente conosco di più
l’architettura della poesia.
In
ogni caso credo di aver colto il senso possibile del confronto fra composizione
poetica e composizione architettonica.
Ho
proposto degli strumenti di analisi non accademici che ognuno può verificare
trovando gli esempi migliori o che preferisce.
“ Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba ”.
Pro bono malum.