E' indubbio che siamo definitivamente
usciti anche dalle ultime dinamiche della tradizionale selezione dell’opera
d’arte, quella cioè che procedeva dal confronto delle opere fra un gruppo di
amatori dell’arte che si formava nel concorso di personalità nella comunità
pubblica riconosciuta: la città, la corte, l’accademia, il circolo ecc… Il
numero degli attori oggi rende pressoché impossibile che un tale confronto
possa svolgersi in modo imparziale e, per così dire, naturale. In più le
logiche mercantili determinano in modo definitivo l’offerta dell’arte. Le
clientele, le parentele, il successo personale ottenuto attraverso i media
ancor di più.
Dunque dobbiamo fare arte solo per noi
stessi?
È un’ipotesi: è lo spirito fondamentale.
Si fa arte perché se ne sente il bisogno, per testimoniare a noi stessi che ne
siamo capaci.
Però occorre trovare una risposta anche
al senso legittimo di considerazione, di valutazione, di condivisione che ci
aspettiamo dagli altri. È il senso sociale dell’arte oggi.
La misura sarà perciò il successo? Non
lo era prima figuriamoci oggi.
Penso piuttosto a un ribaltamento totale
della prospettiva di senso.
Non più un rapportarsi al centro
riconosciuto dell’interesse artistico (centro inteso anche come sistema
integrato ma coeso: case editrici, mostre, concorsi, galleristi, botteghino
ecc…) ma il formarsi di un proprio centro, a partire da quello individuale, che
abbia delle intenzioni, ambizioni, ricerche e via dicendo, attorno a cui si
costituisce un sistema di policentrismi variamente coordinati tra loro, se lo
sono.
L’artista è un centro che si rapporta ad
altri centri individuali: altri artisti, fruitori, appassionati, amici, gruppi
ecc… Questo secondo centro entra in contatto con un luogo di riconoscimento
specifico che oggi, va detto, non deve di necessità essere inteso come luogo
geografico: il quartiere, la città, ecc… ma è piuttosto un luogo sociale di
interesse condiviso, per presenza fisica, per corrispondenza, per tecnologia
digitale, per stampa e per qualsiasi altro modo.
Non è una considerazione inedita nella
storia: centri di questo tipo sono stati i monasteri nell’alto medioevo, lo
sono stati i Comuni, nella fase forse
più esaltante di sinergia fra società e cultura nella storia d’Italia e
d’Europa. Allora si ragionava in termini di propria piazza
della contrada o del paese, della propria chiesa, della propria fontana, della
propria biblioteca e l’opera d’arte era importante perché collocata in quel
luogo di intenzioni condivise. Il rapporto con l’opera d’arte diveniva di
confidenza intima e anche di libera scelta e condivisione.
Sul piano generale si pone il problema
del successivo livello di centralità, sui rapporti fra comunità di interesse
artistico, ma non ne dobbiamo definire a priori né la natura né la sorte. In
fondo è poco importante quando ci si sente partecipi di una comunità di libera
condivisione di idee e sensazioni. L’animo dell’artista e dell’appassionato è
già soddisfatto a quel punto, poi ognuno nutrirà le sue ambizioni di gloria
pubblica se vorrà, e se verranno ciascuno deciderà come comportarsi.
Di certo non si lascia il destino
dell’arte nella società e le intenzioni di tanti che provano il bisogno
crescente di esprimersi, frutto del successo dei modelli di progresso nella
società di massa non totalitaria, in mano a soggetti dominanti per definizione
e autoreferenziali per interesse reciproco.