Scrivo
poesie da una decina d’anni, che non sono né tanti né pochi. Ho deciso di
pubblicare su questo blog le mie composizioni se, per pura ipotesi, a qualcuno
possano interessare.
Forse
c’è un motivo per cui potrebbero interessare a taluni.
Il
problema è che mi sono accorto d’essere in minoranza. Cercherò di spiegarmi.
Vado, con gli argomenti, nell’ordine nei quali me li sono posti.
Quando,
lentamente, con grande pudore, ho deciso di fare il salto nella poesia mi sono
chiesto cosa fosse per me una composizione poetica. Mi sono chiesto che forma
dovesse avere una poesia, a quali regole dovesse rispondere per non essere solo
l’esternazione di un’acne
adolescenziale, oltretutto questa è un disturbo giovanile che non ho mai avuto
Non
vi stupite, non sono un letterato: ho una formazione culturale e una forma
mentis di architetto per la quale, dinanzi a ogni cosa, mi chiedo: cos’è? di
cosa è fatto? che forma ha? come funziona? cosa significa? come lo posso usare?
et cetera…
Partivo
da alcune “ frasi poetiche ” (così come le avevo definite) e dunque occorreva
dare loro una forma interessate e per me significativa.
Sono
addivenuto ad alcuni punti definitivi del concetto di composizione poetica.
Nota bene: non di poetica o di poesia.
Punto
primo. La poesia è formata da versi che hanno un certo numero di sillabe. O
tutti i versi hanno lo stesso numero di sillabe oppure possono essere alternati
versi di lunghezza differente fra loro secondo una regola che attiene al punto
dell’architettura compositiva della poesia.
Punto
secondo. I versi hanno una relazione, secondo una regola ritmica, che si
definisce o rima o assonanza o consonanza. Altrimenti si chiamano versi
sciolti.
Punto
terzo. Il significato delle parole deve essere intelligibile e formare delle
proposizioni di senso compiuto.
Decisi
che avrei scritto secondo questi tre principi e che per me poesia fosse solo
qualcosa che rispondesse a quei tre punti. Lo è tuttora e ne sono sempre più
convinto.
Va
da sé che mi riferisco alla poesia scritta in lingua madre: nelle traduzioni è
più importante mantenere il carattere semantico, materico, di una parola o il
suo valore d’immagine che comprimere tutto nella sillabazione o nella rima o
nel numero complessivo dei versi. Se si può è meglio, ma senza rigidità
controproducenti, anche perché la traduzione non può che essere sempre parziale
tradimento, dipende dai casi: una traduzione epigrafica è meglio sia letterale,
per un autore moderno si può ardire di più anche nel suggerire. Problemi da
traduttore in cui non entro.
Faccio
alcune considerazioni sulle tre regole.
Punto
primo. Riguardo al numero delle sillabe, a parte che non conosco lingua o
cultura nella quale scrivere in versi non comportasse un conteggio delle
sillabe, mi spieghereste perché non tenendone conto si va a capo? Per
risparmiare sulle virgole? Quello che si scrive in versi spezzati potrebbe
essere messo di seguito ottenendo una prosa o aulica o elegante o strana,
quello dipende dalle capacità. D’altronde le tecniche di elisione o fusione di
vocali nei dittonghi o la separazione negli iati o fra vocali finitime
permettono una notevole libertà nel conteggio.
Punto
secondo. L’italiano è una lingua stupenda, che si apprezza davvero solo
scrivendo, sia in prosa o sia in poesia. Nella sua evoluzione storica ha assunto
alcune connotazioni tipiche. È una lingua assiduamente sillabica: in italiano
ogni sillaba va scritta e pronunciata, non ci si può ‘ mangiare le parole ’, se
qualcosa è scritto va letto così com’è. Ha perso rispetto al latino (e al greco,
intesa come lingua letteraria di sostrato) le aspirate e le sillabe tonali. Non
ha cioè sillabe lunghe o corte, che presuppongono una tonalità nella pronuncia
e una durata maggiore nel tempo, ha solo vocali toniche, o sia sulle quali cade
l’accento. E se anche mantiene un qualche retaggio noi non siamo più in grado
di rendercene conto.
È
molto difficile e controverso cercare di tradurre in accenti tonici le lingue
tonali. La regola della poesia classica non prevedeva la rima ma aveva schemi
di ritmica tonale. In italiano è impossibile. La ritmicità si è spostata
dall’interno del verso al rapporto tra i versi nello schema architettonico
della composizione. Così hanno fatto i padri della poesia italiana. Del resto
anche qui le scelte sono moltissime: rime alternate, distici, terzine ecc… Non
solo: nulla vieta di inventarne di nuovi o darsi la propria regola e vedere
cosa succede e se funziona. L’importante, come in tutte le regole autoimposte,
è di rispettarle e di essere coscienti quando si fa un’eccezione che essa ‘ conferma la regola ’ e non sia una
serie di eccezioni che diventano la negazione della regola di premessa.
Sull’ultimo
punto non voglio spendere nemmeno una parola. Scrivere frasi senza senso o
talmente aggrovigliate da non essere comprensibili nel puerile tentativo di
apparire sperimentale o affascinante è un problema di chi così decide, non mio.
Unica eccezione che si può forse ammettere è la composizione proposta dai
dadaisti la quale consiste nel mettere lettere o parole alla rinfusa in un
sacchetto e poi estrarle vedendo ciò che il caso o lo spirito sciamanico
dell’arte ne ricava. Procedimenti analoghi ci sono nella pittura informale. Ma
appunto sono casi limite. Forse dei giochi, come il telefono senza fili oppure
lo zapping ad alta velocità (che una volta si faceva con la radio).
Potrei
inserire anche un ulteriore punto, ma convengo che è più una mia preferenza che
un discrimine: una composizione poetica deve avere una forma. In poesia come in
architettura abbiamo composizioni chiuse (che ‘si guardano’) e composizioni
aperte verso il paesaggio. Possono avere parti chiuse e parti aperte in
relazione fra loro. Ma tutte hanno un inizio, una struttura interna, delle
parti e una fine: poesie asintotiche non ne ho mai viste. Anche qui le forme
sono tante e si possono concepirne sempre di nuove.
Per
ciò che concerne il contenuto della poesia, o poetica, penso che la poesia può
parlare di tutto ma di nulla di obbligatorio, credo che un buon punto di
partenza per ulteriori riflessioni sia affermare, come io faccio, che la poesia
è un modo che obbliga scrivere con precisione, almeno da una certa età in poi,
e che consiste nel guardare ciò che si vede normalmente con uno sguardo e occhi
diversi.
Concludo
dicendo che potrebbe essere, per un caso dadaista, che qualcuno trovi una
bottiglia che galleggia sull’oceano del web e che contiene questo blog. Sarebbe
il benvenuto se volesse dare il suo contributo. Le regole sono le stesse che consigliavo
quando insegnavo kenjutsu (spada giapponese): massima cortesia per il compagno
di pratica, massima educazione, spirito costruttivo, insomma tutte quelle cose
che di solito non si trovano sul web e che non si usano più nella vita.
Questo
primo post è parecchio formale, me ne rendo conto, ma è anche il primo e non mi
andava di dare subito il cattivo esempio. Penso che la seriosità non abbia
niente a che vedere con l’educazione o la cortesia e nemmeno con le buone idee.
Un requisito mi pare invece non eludibile, anche per lo sviluppo del confronto:
la condivisione, anche critica e dialettica, dei tre punti che ho spiegato, sia
se siete dei lettori e amanti della poesia sia e soprattutto se, come me, siete
poeti per diletto e vocazione. In particolare se non condividete il punto primo
girate al largo.
Ultima
precisazione dovuta per l’eventuale naufrago che s’imbattesse in me. Io non
sono nessuno, davvero: non posso aiutarvi a pubblicare, non frequento ambiti
editoriali o promozionali, non ho nulla da insegnarvi, non posso darvi consigli
per diventare scrittori di successo (e nemmeno senza successo). Mandatemi le
vostre riflessioni e le vostre idee, non tutte le vostre poesie perché questo è
il mio blog e ci stanno le mie. Mandatemi, delle vostre composizioni o di altri, solo quelle che sono esemplificative di ciò che state
dicendo. Semmai mettete il link dove si possono leggere le vostre poesie o i
titoli delle vostre pubblicazioni.