domenica 27 gennaio 2019

Esametri e sonetti

Nella mia prima raccolta di versi, “ Un po'esie ” ho usato tre forme: quella che ho chiamato esametri, il sonetto e il tanka.



La struttura tanka è già una ripresa della forma classica giapponese applicata a una lingua e soprattutto a un alfabeto che sono del tutto dissimili, dunque considerazioni di carattere generale non mi sentirei di farne. Al più si può dire che occorre molta sintesi, soprattutto in una lingua polisillabica come l'italiano, perché è molto difficile esprimere dei concetti in uno spazio così breve, e ne deriva una poesia di evocazione, di allusione quasi. Tecnicamente la struttura è l'alternanza di quinari e settenari, che può continuare in composizioni più estese, con la conclusione di un distico di settenari. E a volte quelle quattro sillabe di più servono davvero per finire la poesia. Si fa anche un grande uso di elisioni, sinizesi e sineresi ovviamente.

Come ho già detto. L'esametro è l'estensione in senso verticale del verso esametro della poesia classica.
La struttura dell'esametro è _ _ _ _ _ _ _ _ _ uu _ _ oppure _uu al posto di _ _ ecc... _ uu d'obbligo al quinto piede e conclusione _u. l'accento va sempre sulla prima sillaba.
Ho ipotizzato che per ogni sillaba lunga corrisponda un verso lungo, un endecasillabo per esempio, e a ogni corta un verso più breve, un settenario per esempio. Con tutte le permutazioni possibili per non rendere lo schema troppo rigido.
Quindi:

endecasillabo
endecasillabo

endecasillabo
endecasillabo

endecasillabo
endecasillabo

endecasillabo
endecasillabo

endecasillabo
settenario
settenario

endecasillabo
endecasillabo

oppure

endecasillabo
settenario
settenario

ecc..

endecasillabo
settenario

e tutte le permutazioni possibili.

Questi versi possono rimare o essere consonanti, accoppiati o alterni.
Lo schema nascerà dai versi che vengono e si ordineranno nel modo diremmo più naturale.
Certo la rima baciata diventa presto monotona a meno di non cambiarla per ogni piede o per piedi alternati o a caso (cioè secondo il caso, ossia suggerita dai versi, non ad mentulam). L'alternanza di sillaba finale nella coppia di endecasillabi è più scorrevole.
Viene naturale che la sillaba finale sia diversa fra endecasillabi e settenari e che i settenari diventino un distico consonante, ma non è una regola.
Quando lo schema prevede endecasillabi alternati a coppia ma con lo stesso tipo di consonanza i primi otto versi diventano un passo regolare e il quinto e il sesto piede siano la chiosa del componimento. Un po' come avviene nell'ottava rima: AB AB AB CC.
Quello che gli esametri danno, motivo per cui ho deciso di continuare a utilizzarli, è che usando la libertà delle permutazioni, ogni poesia prende un suo ritmo musicale, che è esattamente lo scopo per il quale era usata dai poeti classici.
L'alternanza fra distici endecasillabi o terzine può spezzare la poesia in due parti o immettere una discontinuità nel ritmo, una sincope si direbbe in musica, che obbliga ad aumentare o diminuire il ritmo del verso.
Ecco alcuni esempi della struttura di base. Tutti gli esempi sono tratti da “Un po'esie”

Questa poesia nacque dagli occhi azzurri di una ragazza del passato, in cui il battito delle ciglia mi sembrò come i remi che affondano nell'acqua per iniziare un bel viaggio.
Qui lo schema indica che le prime quattro coppie dei versi sono la parte che introduce la conclusione. In particolare il quarto distico, esordendo con un 'ma' comincia a rompere il ritmo di narrazione. Il quinto piede e il distico finale sono resi coesi dall'uso della stessa sillaba finale dei settenari.

I tuoi occhi sono un mare pescoso
di ogni delizia, e le flessili ciglia

remi alla nave di Odisseo glorioso.
Odor di mare, suono di conchiglia,

d’un viaggio e d’un approdo ascoso,
gioia mortale, ottava meraviglia.

Ma tu, altera, mi lasci doloroso
e uno strano sgomento mi si appiglia.

Così resto da un canto timoroso,
spemente e trepido
d’un azzurro tuo sguardo

che, come acqua, mi faccia meno roso
del fuoco di cui ardo.

(schema: AB AB AB AB Acc Ac)



Quest'altra è nata da un'ape che suggeva in uno degli ultimi fiori autunnali, il che mi apparse come un disperato anelito di vita. Lo schema vede la stessa rima finale per gli endecasillabi e cambio di sillaba per ogni coppia di settenari. L'endecasillabo finale cambiando di sillaba è come un colpo di arresto per tutta la narrazione che ha il ritmo dei 2/4 musicali, nella proporzione, ad esempio, di un ottava e due sedicesimi.
Fra l'altro, quando nell'esametro si passa al modello trocheo si hanno degli interessanti terzetti di parole finali: morte, fuori, colori – sorte, pasto, vasto – smorte, piccini, ottobrini – corte, sferza, forza – forte, ultimo, estremo.

Nell’autunno dalle foglie morte,
vive solo di fuori
nei vividi colori,

l’ape dorata tenta la sua sorte:
cerca l’esito pasto,
ma il mondo è meno vasto.

Nelle corolle sempre più smorte,
fra i fiori piccini,
fra i rami ottobrini,

tenta sfuggir le giornate corte,
col sole che ancora sferza
ma non ne ha più la forza.

Anche il bottone è ormai meno forte:
testimone ultimo
dello sforzo estremo,

sboccia e beve la vita con la morte,
mai sazio, fino all’ultima goccia.

(schema: Abb Acc Add Aee Aff AG)


L'ultima che propongo è un inno vitalistico che mi è stato suggerito dai versi da “Testa di fauno” di Arthur Rimbaud: “...Un fauno attonito mostra i suoi due occhi / E morde i fiori rossi coi suoi denti bianchi / Brunito e sanguinante come un vecchio vino...” e in generale da tutta la poesia. Con l'invocazione finale verso una dissoluzione liberatoria. Qui abbiamo che l'alternanza fra undici e sette sillabe nei versi ripete sempre le medesime sillabe reiterando la stessa terzina. Nonostante l'inarcatura fra il terzo e il quarto verso ne esce un ritmo continuo a cerchi concentrici che terminano bruscamente col distico finale che è come una terzina zoppa. Anche qui si può fare lo stesso gioco delle parole finali e ne esce una sorta di poesia futuristica.

Basta guardare alla vita e gemere
aspettando il riscatto.
Sorto come un fauno,

con denti di zucchero voglio azzannare,
dolcemente matto,
l’anima di ognuno.

Alzarmi all’alba per vedere splendere
di bagliore intatto
il sole del mattino.

Contemplare la luna brillare,
sul tetto con il gatto,
nell’etere notturno.

Insidiare nudo le ninfe altere
con il viso scarlatto,
ma non è sangue: è vino.

Dormire, sazio ed ebbro, finalmente,
senza cura di niente.

(schema: Abc Abc Abc Abc Abc Dd)



Il sonetto è composto di quattordici versi della stessa lunghezza, il più usato è l'endecasillabo.
Ne esistono di due schemi quello a rime alternate ABAB ABAB CDE CDE o quello detto alla provenzale ABBA ABBA CDE CDE c'è anche quello shakesperiano ABAB CDCD EFG EFG che però non ho usato in questa silloge.
Nel primo e nell'ultimo caso le strofe sono il tessuto narratore e le sirme, o vero le terzine, il cambio di ritmo e la conclusione. Le terzine sono spesso usate con grande libertà ma in genere in modo uguale fra loro. Anche qui la regola c'è ma si può benissimo adattarla alle esigenze della poesia, se non ci si pone di rispettare rigidamente la forma. Le permutazioni sono tutte quelle possibili.
Nel caso in cui si adottino rime rispecchiate, come nel caso provenzale, la prima parte della poesia sarà molto più chiusa come sotto composizione e le terzine finali giocheranno un ruolo di fuga molto più accentuato.
Ora va detto che questo può essere voluto o meno dal poeta. Si può partire con l'idea di costruire una poesia con un determinato schema. Allora è bene fissare dei versi di imposta e riempire i vuoti con dei versi accessori. A volte succede che il livello lirico si ottenga di più nei versi accessori. Se invece lo schema viene da sé, solo adattando i versi precedenti, ho già detto che con l'abitudine l'endecasillabo è automatico nelle orecchie, allora la poesia avrà un ritmo magari non aspettato e che dà un tono particolare alla composizione.
La poesia non è una scienza e molto è lasciato alla verve del poeta, a volte il cervello ragiona da solo per noi. Regole compositive ce ne sono a iosa ma la tendenza è a non farsi ingabbiare troppo da queste norme che a volte sono cervellotiche come solo un letterato sa fare. Il problema è la coerenza di quello che si fa, più che l'abilità enigmistica di trovare la soluzione alla forma scelta.

I due sonetti successivi hanno come tema quello della 'passante'. La prima era una ragazza tipologicamente 'popolana' la quale, consapevole della sua bellezza e esitando fra l'ostentazione e il pudore risultava irresistibilmente tenera. Le prime due strofe sono descrittive, le sirme portano il sentimento rispecchiando un'immagine evocata con la fuga lirica. Strofe e sirme sono specchiate.

D’un tratto mi hai riempito di colori.
Mi fermai perché prima di me passassi,
col viso serio più che tu non fossi,
gli occhi bruni ed i capelli neri.

Nella blusetta di velo a fiori
e il seno che ti sobbalzava ai passi,
nella gonna stretta ai fianchi mossi
eri azzurra nube di verdi umori.

Profumavi dolce di caramella,
uno di quei trastulli di zucchero,
bianchi e rossi, che s’attaccano alle dita.

Alito rosa e porpora infinita,
come se un sogno si voltasse in vero,
e non sapevi tu quanto eri bella!

(schema: ABBA ABBA CDE EDC)


In quest'altra invece la passante non si vede, si percepiscono dei rumori e dei profumi per cui rimanda a un'altra passante la cui crudeltà amorosa sale in crescendo. L'alternanza delle sillabe e le sirme in terzine dantesche propongono una narrazione continua dall'inizio alla fine della poesia.

L’aria si scolora di nebbia alata
e profuma di biscotto e di cannella.
Tacchi acuti sulla via selciata
annunciano una donna fatua e bella.

Una sera d’ottobre desolata
e struggente di fragranza novella
si anima di speranza mai sopita:
che la donna sia la tua, che sia quella.

Ma non c’è nulla che segua il suono.
L’eco è solo il mostrarsi di un’assenza,
tono falso, crudele e disumano.

Quanto tempo che ti aspetto invano!
Che mi presto alla tua scema violenza,
che chiudo mesto le imposte piano.

(schema: ABAB ABAB CDC CDC)


Il convivio, semplicemente lo stare insieme a tavola è il tema dell'ultimo sonetto proposto. Si sente una suggestione dai lirici greci. Lo schema provenzale rispetta gli argomenti che sono esposti con ordine, lo stesso avviene con le sirme che ribadiscono la loro chiusura col distico finale della stessa sillaba.

Quando il tempo dell’apogeo del sole
volge al termine la stagione bella
e lascia luogo all’epoca novella,
festa dell’anno, l’autunno sale.

Ricchi di vino e cibi nelle sale,
è caro accanto al fuoco che favilla
passar la notte dietro una scintilla
blandendo il cuore con vaghe parole.

Chiedere come vanno le cose,
i soldi, l’amore e la vita ancora
e parlare di come il mondo gira,

sapendo che son più spine che rose.
E intanto il tempo passa ora ad ora
e la notte lascia luogo all’Aurora.

(schema: ABBA ABBA CDD CDD)


R.P.
 
Posteris memoria mea




domenica 6 gennaio 2019

Tracce del sogno dei guerrieri

Ho scritto, come si può desumere dalle “note biografiche e lavori” di questo blog, un testo sul kenjutsu, o sia la tecnica della spada giapponese. Esso riassume gli insegnamenti che davo quando tenevo un corso di kenjutsu.
In questa introduzione spiego le basi della disciplina.
Oggi la spada giapponese è molto di moda ma non tutti ne sanno qualcosa e, da quello che vedo, nemmeno chi vanta diplomi di chissà quale scuola.
Comunque niente polemiche: è un argomento nuovo di cui mi va di dare testimonianza. Come ho già detto “Libera Associazione della Spada” è il nome dell'associazione che fondai quando cominciai a insegnare il kenjutsu e che ora dà il nome al blog.
Ecco l'introduzione tratta dal mio studio “Le tracce del sogno dei guerrieri”.


‹‹ ″Questo libro riassume il contenuto tecnico del kenjutsu come l’ho sperimentato e insegnato nella Ken Jūna Kyōkai.
Il metodo che ha portato alla redazione di queste note è il seguente.
Una volta apprese le forme della tecnica della scherma con spada giapponese con presa a due mani, mi sono chiesto e ho chiesto perché si facesse in quel dato modo ottenendo, quando le ottenevo, delle risposte evasive: si fa così… i maestri l’insegnano così… le forme sono queste… I più onesti dicevano di non saperlo, ma che erano abituati a fare in quel modo. I più stupidi davano spiegazioni campate per aria.
Allora decisi di cominciare il mio studio solitario, avendo come criterio quello che la tecnica dovesse per forza uscire dal tipo di arma stessa che si usava.
Quindi ho passato quattro anni a verificare ogni tecnica che avevo appreso e sei a insegnarla potendo provarla sul campo e apportando qualora fosse il caso le modifiche necessarie.
Devo dire che non si è trattato mai di grandi cambiamenti quanto piuttosto dei miglioramenti che hanno completato la tecnica che avevo messo a punto.
Questa tecnica è risultata, com’era logico, affine a quella tradizionalmente insegnata, ma in alcuni punti si discosta, recuperando la vera tecnica di katana e soprattutto una ben diversa la consapevolezza delle ragioni.
Le forme che sono qui presentate si sono affrancate definitivamente dal kendo e hanno riscoperto l’uso completo della spada con presa a due mani.
Nelle note seguenti metto a parte il lettore delle diverse interpretazioni che legittimamente possono far propendere per una soluzione piuttosto che un’altra. Tutte confermano la bontà del lavoro che ho svolto e che continuo a svolgere.
Nessuna tecnica descritta è inventata ma estratta dalla natura dell’arma e ripulisce di tante inesattezze le forme sclerotizzate del kenjutsu che viene insegnato attualmente.
Il metodo è del tutto empirico e spero di essere stato chiaro nell’esposizione.
Per prima cosa descriverò il tipo di arma che ci accingiamo a studiare e nel corso della trattazione spiegherò, se del caso, cosa muterebbe cambiando il tipo di spada.

La katana

Esistono molti tipi di spade in Giappone, diverse fra loro per la dimensione della lama. Spada in giapponese si dice ken, o to che ha un carattere più generale.
La katana è senza dubbio la più nobile e famosa fra le tipologie di spada giapponese. È anche la più usata e forse la più antica fra quelle a lama curva poiché ha questa forma da almeno milletrecento anni. Sicuramente nel XI sec. era già identica a quella che usiamo ancora oggi.
Prima si usavano spade di fabbricazione cinese a lama dritta con doppio taglio e prima ancora spade dritte con un solo taglio conformato curvo.
Lascio a testi specialistici di introdurre tutte le armi da taglio usate nel Giappone e mi concentrerò solo sulla katana (alcuni dicono ‘ il katana ’ io userò il femminile perché spada in italiano è femminile e in giapponese il genere non è sempre specificato).
Come sanno tutti, la fabbricazione della katana entra nel racconto mitico e perciò ogni più piccola parte di essa ha un nome proprio, ma per usarla bene basta conoscere le sue parti essenziali: quelle a cui si fa riferimento nell’esecuzione delle tecniche.
Comincio la descrizione della katana.
È una spada che possiamo definire come di quelle lunghe e pesanti, che si usano meglio a due mani che non a una, ne consegue che la tecnica prevede quasi esclusivamente forme di presa a due mani.
Peraltro lo studio della presa a due mani è molto più essenziale e elevato di quella a una mano. Sembra più facile perché le possibilità si riducono, ma ciò si porta dietro tutta una serie di movimenti e ragioni specifiche che la fanno un’arma profonda e nobile. A detta di tutti.

La katana è composta di alcune parti che si assemblano per fare la spada completa, ma nell’insieme essa è costituita dalla lama, dall’impugnatura e dall’elsa, oltre che dal fodero.


La lama è in acciaio speciale temprato e il filo subisce una lavorazione particolare che lo tempra in modo impressionante.
La parte visibile della lama è lunga circa 75 cm. Un pezzo di circa una spanna si incastra nell’impugnatura.
È una lama curva con un solo taglio.
La lama in giapponese di dice mi, il filo si chiama ha, la parte senza filo e di sezione più larga si dice mune e la curvatura zori. La punta della lama è detta kensen o kissaki.

L’impugnatura si chiama tsuka ed è composta da due pezzi di legno che racchiudono la parte di lama non visibile. I tre pezzi sono resi solidali da un cavicchio di bambù che si chiama mekugi.
La tsuka costituisce un quarto della lunghezza complessiva della spada, mentre la lama visibile prende gli altri tre quarti.
La tsuka è avvolta in pelle di pesce razza e fasciata con un nastro di seta pesante incrociato per favorire la presa e assorbire il sudore.
Alla fine dell’impugnatura, o per meglio dire all’inizio, c’è il pomolo che contribuisce a chiudere del tutto la tsuka con la pelle di razza e il nastro di seta, e si chiama kashira.

Fra la lama e la tsuka è incastrata l’elsa della spada, per mezzo di un anello di rame inserito a caldo che poi raffreddandosi fa corpo unico con la lama.
L’elsa si dice tsuba ed è di forma varia, ma di solito tonda o quadrata o quadrilobata.
Le forme delle tsube sono mille e mille e sono oggetto di collezione per stile e periodo.
L’elsa protegge la mano, ma per chi padroneggia la tecnica sarebbe anche inutile, in ogni caso, un po’ per precauzione e un po’ per la bellezza artistica, c’è su tutte le katana, tranne in quelle che sono nascoste in un bastone.

La descrizione data fin qui si riferisce a una vera katana con tutti i crismi: la si troverà solo in Giappone e a prezzi molto elevati.
Di norma si prendono delle katana senza filo e alcune parti sono sostituite dalla plastica e l’acciaio non è certo del tipo originario. Ce ne sono anche in lega leggera ma non hanno lo stesso fascino.
Comunque l’essenza del kenjutsu non è certo nel costo o nella bellezza della katana: non fate spropositi.
Io uso da sempre una katana di fabbricazione spagnola che comprai scontata, perché era spaiata di colore col wakizashi. Li pagai tutt’e due centomila lire, credo nell’anno 1987 o giù di lì. Da allora è la mia spada a cui ho dato un nome e che mi accompagna nello studio e nella pratica e spero non si rompa mai.
C’è gente che dopo aver imparato il primo kata dello iaido si compra una katana da 1500 € !

Il baricentro della katana è a circa i 2/3 della lunghezza totale misurando dalla punta o, che è lo stesso, 1/3 dal kashira. Questo rende molto ben bilanciata la spada e comoda da usare.
Non sempre lo stesso è nelle boken, cioè nelle spade di legno che si usano per allenarsi con una spada meno pesante oppure negli scambi, per maggior sicurezza. Soprattutto oggi si trovano delle boken di fabbricazione cinese, molto economiche e andanti, ma poco bilanciate.
La prova di dove si trovi il baricentro della katana o della boken è semplice: la si appoggia sull’indice sul lato del mune o di piatto e si vede quando sta in equilibrio, se è intorno ai 2/3 va bene.
Se il baricentro della katana è sbagliato non c’è niente da fare se non comprare una spada nuova, se è sbilanciata la boken si può lavorare di raspa e assottigliare la parte della punta progressivamente oppure tenersi lo sbilanciamento come difficoltà in più di controllo in modo da averne dei benefici quando si pratica con la katana. Occorre considerare che però tutti gli scambi saranno fatti con la boken perché, se è vero che si useranno katana ottuse, cioè senza filo, rimane una certa pericolosità legata al metallo.
Le migliori boken sono giapponesi in legno di ciliegio, ma si trovano soprattutto in legno di quercia.
Non comprate boken troppo leggere, ma nemmeno troppo pesanti perché sarebbero senz’altro sbilanciate, oppure lavoratele a mano.
Fate conto che una katana sfoderata può pesare anche un chilo e mezzo o più, le boken vanno da tre-quattro etti a sette o ottocento grammi.

L’ultima parte della spada, importante soprattutto nelle tecniche di sfoderamento, ma anche per il significato simbolico, è il fodero, saya in giapponese. Saya è femminile in giapponese.
È composto da due pezzi di legno simmetrici che sono uniti da spine e rifiniti di solito con una laccatura, decorata o no. Si è affermato il gustò della saya nera laccata lucida. Ma niente è obbligatorio. La mia saya è di legno di bambù al naturale.
Il fodero è piuttosto delicato e perciò bisogna imparare bene la tecnica di sfoderamento e rinfodero per non spaccarlo. Dover cambiare la spada perché il fodero è rotto è seccante, del resto se la lama non scivola senz’alcun attrito nel fodero non va bene.
Sul fodero, più o meno a quattro dita dalla tsuba, c’è sul lato sinistro (se teniamo il filo in su com’è normale nella katana in cintura) un ponticello di legno su cui è legato un nastro di seta o cotone. Il ponticello si chiama kurikata e il nastro, lungo almeno un metro ma spesso di più, si chiama sageo.
Sull’uso del kurikata dirò qualcosa nel seguito, perché non c’entra per nulla con la tecnica.
Il sageo ha invece un’importanza simbolica: soprattutto, è un ‘ filo di iniziazione ’, ma in pratica serve per legare la spada al fodero in modo che non esca durante il trasporto.
Simbolicamente la spada legata indica di non voler combattere, slegata che si comincia il combattimento o la pratica.

L’abito

Ossia come ci si veste per praticare il kenjutsu.
Prima regola: l’abito fa il monaco.
Non si può praticare il kenjutsu in tuta o con calzoncini e canottiera. Oltre che orripilante è contrario allo spirito del bushi.
All’inizio si può ammettere che il neofita pratichi con un vestito comodo e sobrio, del tipo delle altre arti marziali o con un abito adatto per fare yoga: pantaloni e casacca all’indiana. E se le condizioni economiche non lo permettono si andrà avanti così.
Ma niente tute, magliette colorate, fusó o roba simile. Piuttosto è meglio praticare con camicia bianca e pantaloni all’occidentale. Oltretutto il kenjutsu, insieme al kendo e poche altre, è l’unica arte marziale che una donna può praticare con la gonna. Una gonna lunga e larga naturalmente, niente tubini o minigonne in pelle…

Partiamo da come era vestito un bushi giapponese.
Tralasciamo il bushi in armatura perché nel kenjutsu i colpi non si portano fino in fondo e non c’è bisogno di protezioni.
Giusto per conoscenza dirò che l’armatura giapponese si indossava su un vestito simile a quello con cui si praticano oggi le arti marziali, tranne i calzoni che erano stretti sotto al ginocchio.
Essa era costituita di tavolette di bambù laccate irrobustite da lamine di metallo, fissate con chiodi ribattuti, e unite fra loro da nastri di seta. Era fatta di varie parti che coprivano tutto il corpo, mani e piedi compresi. Era una copertura efficace e leggera ma più adatta a proteggere da colpi accidentali, perciò la tecnica si evolse da subito in modo molto raffinato. Ci si proteggeva di più con l’abilità che con la corazza.


L’abito classico di chi pratica il kenjutsu è composto da una giacca del tipo di quelle del judo o del karate e dai pantaloni giapponesi che si chiamano hakama, ai piedi si hanno calze di cotone o le babbucce dette tabi o si pratica a piedi nudi.
Sotto la hakama non si indossa niente (se non le mutande) o a piacere dei calzoncini. Alcuni mettono i calzoni lunghi del judogi, ma a me sembra scomodo perché fanno attrito con la hakama. Comunque a piacere.
La giacca si lega con una cintura, detta obi, che dovrebbe essere del tipo alto e molto lunga, ma può andare bene una normale da judo purché si abbia l’accortezza di prendere la più lunga: si dovrebbe riuscire a fare tre giri prima del nodo. È importante quando si metterà la katana in cintura per gli sfoderamenti. Se si trova una cintura un po’ elasticizzata ancora meglio.
La hakama si indossa per ultima sopra la giacca. Esistono numerosissimi modi di allacciarla: sia prima la parte posteriore e poi l’anteriore sia viceversa. E altrettanti sono i nodi della parte esterna delle fettucce della hakama. Non entro nemmeno nella disputa perché è come quella sul sesso degli angeli.
A me hanno insegnato a legare prima la parte posteriore e poi quella anteriore e a fare un nodo a farfalla.
Per motivi miei ho sostituito il nodo davanti con l’annodatura dietro la schiena, come spesso fanno in Giappone con tutte le cinture.
Fate come vi pare, l’unica cosa essenziale è che il nodo davanti non sia d’impiccio nel manovrare il fodero e la spada.
I colore dei vestiti varia secondo la scuola. La hakama in genere si trova blu per il kendo e nera per l’aikido, con un po’ di fatica si trova anche bianca.
Sfatiamo un mito. La hakama non è un vestito liturgico, mistico e iniziatico: sono solo i calzoni dei Giapponesi da quando hanno smesso di legarseli con delle ciocie sotto al ginocchio. Di conseguenza, e vale per la giacca o camicia che dir si voglia, il colore o la fantasia sono a libera scelta di chi l’indossa. Al massimo si può dire che sono dei calzoni eleganti, ma niente di più.
Ovviamente le hakama di lana o di colori vari o fantasia si trovano solo in Giappone, quelle che si possono comprare qui nei negozi specializzati sono il tipo per la pratica delle arti marziali, in cotone o misto. E sono dei colori detti.
Se volete seguire i colori della KJK dovrebbe essere nera o gialla, ma non ha nessuna importanza poiché i colori sono tratti dal mio mon che ho adottato, naturalmente, anche per la scuola. Se voi avete un vostro mon o ve lo fate, potreste usare i colori che preferite.

Quando insegnavo avevo ideato una soluzione per chi non potesse o non volesse spendere soldi nell’acquisto della hakama.
Si tratta di procurarsi un drappo di cotone, di un paio di metri di lunghezza per circa uno e mezzo di altezza, per esempio ricavandolo da un lenzuolo.
Poi quella stoffa si può drappeggiare in vita in due modi.
Il primo è all’indiana, ossia prendendo le due estremità dei lati lunghi e incrociandole davanti all’ombelico e poi fatte passare dietro fissandole rivoltando una volta o due il bordo della sottana che si viene così a formare.
Il secondo consiste nel posizionare un lembo del drappo in verticale davanti all’ombelico e arrotolare l’altro in panneggi via via sempre più stretti e centrati, poi arrotolare il bordo, in modo che la ricchezza sia tutta davanti e permetta il libero movimento delle gambe.
In entrambi i casi la cintura va ovviamente sopra, mentre con la hakama la cintura, per mettere la spada, si può raggiungere dalle aperture laterali dei calzoni. Quindi si mette sopra la giacca. Non sarebbe strano però metterla sopra la hakama come spesso facevano i Giapponesi.
Se guardate le stampe e le raffigurazioni storiche vedrete che prima di usare la hakama i Giapponesi si mettevano un drappo con cintura, dunque non mi sono inventato niente che già non esistesse.
Sopra si può usare una giacca da karate o simile o una maglietta, larga e a tinta unita, a cui sono state tolte le maniche o una camicia senza maniche e colletto, come per chi duellava nella nostra scherma.
Non è solo teoria: la consiglio perché io stesso mi vesto così quando mi alleno per poco e non ho voglia di vestirmi con la hakama e tutto il resto.
Sarebbe ammissibile anche praticare a torso nudo, ma non è consigliabile se si è in gruppo.

Il dojo

È il luogo di pratica. Ovviamente ognuno ha quello che si può permettere: da casa sua al parco, alla palestra ecc…
Il miglior pavimento, va da sé, è il parquet di legno, addirittura se al naturale e non lucidato, ma l’unica cosa davvero importante è che sia piano per non rischiare di farsi male e meglio se ci si può scivolare coi piedi.
Quello che mi preme dire è che, se non ci sono motivi particolari del gruppo di pratica, riserverei a una scelta personale se salutare il dojo quando si entra e quando si esce.
Il rispetto per il dojo si fa praticando con impegno e dimostrando cortesia verso i compagni e non con l’abitudine di fare un inchino frettoloso all’inizio e alla fine. O stando sempre cupi e seriosi.
Imprescindibili invece i saluti fra i partecipanti come dirò nella parte di tecnica individuale. ››

nota: il titolo del libro è ripreso da un tanka di Bashoo di cui ho già parlato nel post “Da Saffo a Shiki” sui tanka e i lirici greci.

R.P.

posteris memoria mea