Ho
scritto, come si può desumere dalle “note biografiche e lavori”
di questo blog, un testo sul kenjutsu, o sia la tecnica della spada
giapponese. Esso riassume gli insegnamenti che davo quando tenevo un
corso di kenjutsu.
In
questa introduzione spiego le basi della disciplina.
Oggi
la spada giapponese è molto di moda ma non tutti ne sanno qualcosa
e, da quello che vedo, nemmeno chi vanta diplomi di chissà quale
scuola.
Comunque
niente polemiche: è un argomento nuovo di cui mi va di dare
testimonianza. Come ho già detto “Libera Associazione della
Spada” è il nome dell'associazione che fondai quando cominciai
a insegnare il kenjutsu e che ora dà il nome al blog.
Ecco
l'introduzione tratta dal mio studio “Le tracce del sogno dei
guerrieri”.
‹‹ ″Questo
libro riassume il contenuto tecnico del kenjutsu come l’ho
sperimentato e insegnato nella Ken Jūna Kyōkai.
Il
metodo che ha portato alla redazione di queste note è il seguente.
Una
volta apprese le forme della tecnica della scherma con spada
giapponese con presa a due mani, mi sono chiesto e ho chiesto perché
si facesse in quel dato modo ottenendo, quando le ottenevo, delle
risposte evasive: si fa così… i maestri l’insegnano così… le
forme sono queste… I più onesti dicevano di non saperlo, ma che
erano abituati a fare in quel modo. I più stupidi davano spiegazioni
campate per aria.
Allora
decisi di cominciare il mio studio solitario, avendo come criterio
quello che la tecnica dovesse per forza uscire dal tipo di arma
stessa che si usava.
Quindi
ho passato quattro anni a verificare ogni tecnica che avevo appreso e
sei a insegnarla potendo provarla sul campo e apportando qualora
fosse il caso le modifiche necessarie.
Devo
dire che non si è trattato mai di grandi cambiamenti quanto
piuttosto dei miglioramenti che hanno completato la tecnica che avevo
messo a punto.
Questa
tecnica è risultata, com’era logico, affine a quella
tradizionalmente insegnata, ma in alcuni punti si discosta,
recuperando la vera tecnica di katana e soprattutto una ben diversa
la consapevolezza delle ragioni.
Le
forme che sono qui presentate si sono affrancate definitivamente dal
kendo e hanno riscoperto l’uso completo della spada con presa a due
mani.
Nelle
note seguenti metto a parte il lettore delle diverse interpretazioni
che legittimamente possono far propendere per una soluzione piuttosto
che un’altra. Tutte confermano la bontà del lavoro che ho svolto e
che continuo a svolgere.
Nessuna
tecnica descritta è inventata ma estratta dalla natura dell’arma e
ripulisce di tante inesattezze le forme sclerotizzate del kenjutsu
che viene insegnato attualmente.
Il
metodo è del tutto empirico e spero di essere stato chiaro
nell’esposizione.
Per
prima cosa descriverò il tipo di arma che ci accingiamo a studiare e
nel corso della trattazione spiegherò, se del caso, cosa muterebbe
cambiando il tipo di spada.
La
katana
Esistono
molti tipi di spade in Giappone, diverse fra loro per la dimensione
della lama. Spada in giapponese si dice ken,
o to che ha un carattere più generale.
La
katana è senza dubbio la più nobile e famosa fra le
tipologie di spada giapponese. È anche la più usata e forse la più
antica fra quelle a lama curva poiché ha questa forma da almeno
milletrecento anni. Sicuramente nel XI sec. era già identica a
quella che usiamo ancora oggi.
Prima
si usavano spade di fabbricazione cinese a lama dritta con doppio
taglio e prima ancora spade dritte con un solo taglio conformato
curvo.
Lascio
a testi specialistici di introdurre tutte le armi da taglio usate nel
Giappone e mi concentrerò solo sulla katana (alcuni dicono ‘ il
katana ’ io userò il femminile perché spada in italiano è
femminile e in giapponese il genere non è sempre specificato).
Come
sanno tutti, la fabbricazione della katana entra nel racconto mitico
e perciò ogni più piccola parte di essa ha un nome proprio, ma per
usarla bene basta conoscere le sue parti essenziali: quelle a cui si
fa riferimento nell’esecuzione delle tecniche.
Comincio
la descrizione della katana.
È
una spada che possiamo definire come di quelle lunghe e pesanti, che
si usano meglio a due mani che non a una, ne consegue che la tecnica
prevede quasi esclusivamente forme di presa a due mani.
Peraltro
lo studio della presa a due mani è molto più essenziale e elevato
di quella a una mano. Sembra più facile perché le possibilità si
riducono, ma ciò si porta dietro tutta una serie di movimenti e
ragioni specifiche che la fanno un’arma profonda e nobile. A detta
di tutti.
La
katana è composta di alcune parti che si assemblano per fare la
spada completa, ma nell’insieme essa è costituita dalla lama,
dall’impugnatura e dall’elsa, oltre che dal fodero.
La
lama è in acciaio speciale temprato e il filo subisce una
lavorazione particolare che lo tempra in modo impressionante.
La
parte visibile della lama è lunga circa 75 cm. Un pezzo di circa una
spanna si incastra nell’impugnatura.
È
una lama curva con un solo taglio.
La
lama in giapponese di dice mi, il filo si chiama ha, la
parte senza filo e di sezione più larga si dice mune e la
curvatura zori. La punta della lama è detta kensen o
kissaki.
L’impugnatura
si chiama tsuka ed è composta da due pezzi di legno che
racchiudono la parte di lama non visibile. I tre pezzi sono resi
solidali da un cavicchio di bambù che si chiama mekugi.
La
tsuka costituisce un quarto della lunghezza complessiva della spada,
mentre la lama visibile prende gli altri tre quarti.
La
tsuka è avvolta in pelle di pesce razza e fasciata con un nastro di
seta pesante incrociato per favorire la presa e assorbire il sudore.
Alla
fine dell’impugnatura, o per meglio dire all’inizio, c’è il
pomolo che contribuisce a chiudere del tutto la tsuka con la pelle di
razza e il nastro di seta, e si chiama kashira.
Fra
la lama e la tsuka è incastrata l’elsa della spada, per mezzo di
un anello di rame inserito a caldo che poi raffreddandosi fa corpo
unico con la lama.
L’elsa
si dice tsuba ed è di forma varia, ma di solito tonda o
quadrata o quadrilobata.
Le
forme delle tsube sono mille e mille e sono oggetto di collezione per
stile e periodo.
L’elsa
protegge la mano, ma per chi padroneggia la tecnica sarebbe anche
inutile, in ogni caso, un po’ per precauzione e un po’ per la
bellezza artistica, c’è su tutte le katana, tranne in quelle che
sono nascoste in un bastone.
La
descrizione data fin qui si riferisce a una vera katana con tutti i
crismi: la si troverà solo in Giappone e a prezzi molto elevati.
Di
norma si prendono delle katana senza filo e alcune parti sono
sostituite dalla plastica e l’acciaio non è certo del tipo
originario. Ce ne sono anche in lega leggera ma non hanno lo stesso
fascino.
Comunque
l’essenza del kenjutsu non è certo nel costo o nella bellezza
della katana: non fate spropositi.
Io
uso da sempre una katana di fabbricazione spagnola che comprai
scontata, perché era spaiata di colore col wakizashi. Li pagai
tutt’e due centomila lire, credo nell’anno 1987 o giù di lì. Da
allora è la mia spada a cui ho dato un nome e che mi accompagna
nello studio e nella pratica e spero non si rompa mai.
C’è
gente che dopo aver imparato il primo kata dello iaido si compra una
katana da 1500 € !
Il
baricentro della katana è a circa i 2/3 della lunghezza totale
misurando dalla punta o, che è lo stesso, 1/3 dal kashira. Questo
rende molto ben bilanciata la spada e comoda da usare.
Non
sempre lo stesso è nelle boken, cioè nelle spade di legno che si
usano per allenarsi con una spada meno pesante oppure negli scambi,
per maggior sicurezza. Soprattutto oggi si trovano delle boken di
fabbricazione cinese, molto economiche e andanti, ma poco bilanciate.
La
prova di dove si trovi il baricentro della katana o della boken è
semplice: la si appoggia sull’indice sul lato del mune o di piatto
e si vede quando sta in equilibrio, se è intorno ai 2/3 va bene.
Se
il baricentro della katana è sbagliato non c’è niente da fare se
non comprare una spada nuova, se è sbilanciata la boken si può
lavorare di raspa e assottigliare la parte della punta
progressivamente oppure tenersi lo sbilanciamento come difficoltà in
più di controllo in modo da averne dei benefici quando si pratica
con la katana. Occorre considerare che però tutti gli scambi saranno
fatti con la boken perché, se è vero che si useranno katana ottuse,
cioè senza filo, rimane una certa pericolosità legata al metallo.
Le
migliori boken sono giapponesi in legno di ciliegio, ma si trovano
soprattutto in legno di quercia.
Non
comprate boken troppo leggere, ma nemmeno troppo pesanti perché
sarebbero senz’altro sbilanciate, oppure lavoratele a mano.
Fate
conto che una katana sfoderata può pesare anche un chilo e mezzo o
più, le boken vanno da tre-quattro etti a sette o ottocento grammi.
L’ultima
parte della spada, importante soprattutto nelle tecniche di
sfoderamento, ma anche per il significato simbolico, è il fodero,
saya in giapponese. Saya è femminile in giapponese.
È
composto da due pezzi di legno simmetrici che sono uniti da spine e
rifiniti di solito con una laccatura, decorata o no. Si è affermato
il gustò della saya nera laccata lucida. Ma niente è obbligatorio.
La mia saya è di legno di bambù al naturale.
Il
fodero è piuttosto delicato e perciò bisogna imparare bene la
tecnica di sfoderamento e rinfodero per non spaccarlo. Dover cambiare
la spada perché il fodero è rotto è seccante, del resto se la lama
non scivola senz’alcun attrito nel fodero non va bene.
Sul
fodero, più o meno a quattro dita dalla tsuba, c’è sul lato
sinistro (se teniamo il filo in su com’è normale nella katana in
cintura) un ponticello di legno su cui è legato un nastro di seta o
cotone. Il ponticello si chiama kurikata e il nastro, lungo
almeno un metro ma spesso di più, si chiama sageo.
Sull’uso
del kurikata dirò qualcosa nel seguito, perché non c’entra per
nulla con la tecnica.
Il
sageo ha invece un’importanza simbolica: soprattutto, è un ‘
filo di iniziazione ’, ma in pratica serve per legare la spada al
fodero in modo che non esca durante il trasporto.
Simbolicamente
la spada legata indica di non voler combattere, slegata che si
comincia il combattimento o la pratica.
L’abito
Ossia
come ci si veste per praticare il kenjutsu.
Prima
regola: l’abito fa il monaco.
Non
si può praticare il kenjutsu in tuta o con calzoncini e canottiera.
Oltre che orripilante è contrario allo spirito del bushi.
All’inizio
si può ammettere che il neofita pratichi con un vestito comodo e
sobrio, del tipo delle altre arti marziali o con un abito adatto per
fare yoga: pantaloni e casacca all’indiana. E se le condizioni
economiche non lo permettono si andrà avanti così.
Ma
niente tute, magliette colorate, fusó o roba simile. Piuttosto è
meglio praticare con camicia bianca e pantaloni all’occidentale.
Oltretutto il kenjutsu, insieme al kendo e poche altre, è l’unica
arte marziale che una donna può praticare con la gonna. Una gonna
lunga e larga naturalmente, niente tubini o minigonne in pelle…
Partiamo
da come era vestito un bushi giapponese.
Tralasciamo
il bushi in armatura perché nel kenjutsu i colpi non si portano fino
in fondo e non c’è bisogno di protezioni.
Giusto
per conoscenza dirò che l’armatura giapponese si indossava su un
vestito simile a quello con cui si praticano oggi le arti marziali,
tranne i calzoni che erano stretti sotto al ginocchio.
Essa
era costituita di tavolette di bambù laccate irrobustite da lamine
di metallo, fissate con chiodi ribattuti, e unite fra loro da nastri
di seta. Era fatta di varie parti che coprivano tutto il corpo, mani
e piedi compresi. Era una copertura efficace e leggera ma più adatta
a proteggere da colpi accidentali, perciò la tecnica si evolse da
subito in modo molto raffinato. Ci si proteggeva di più con
l’abilità che con la corazza.
L’abito
classico di chi pratica il kenjutsu è composto da una giacca del
tipo di quelle del judo o del karate e dai pantaloni giapponesi che
si chiamano hakama, ai piedi si hanno calze di cotone o le
babbucce dette tabi o si pratica a piedi nudi.
Sotto
la hakama non si indossa niente (se non le mutande) o a piacere dei
calzoncini. Alcuni mettono i calzoni lunghi del judogi, ma a me
sembra scomodo perché fanno attrito con la hakama. Comunque a
piacere.
La
giacca si lega con una cintura, detta obi, che dovrebbe essere
del tipo alto e molto lunga, ma può andare bene una normale da judo
purché si abbia l’accortezza di prendere la più lunga: si
dovrebbe riuscire a fare tre giri prima del nodo. È importante
quando si metterà la katana in cintura per gli sfoderamenti. Se si
trova una cintura un po’ elasticizzata ancora meglio.
La
hakama si indossa per ultima sopra la giacca. Esistono numerosissimi
modi di allacciarla: sia prima la parte posteriore e poi l’anteriore
sia viceversa. E altrettanti sono i nodi della parte esterna delle
fettucce della hakama. Non entro nemmeno nella disputa perché è
come quella sul sesso degli angeli.
A
me hanno insegnato a legare prima la parte posteriore e poi quella
anteriore e a fare un nodo a farfalla.
Per
motivi miei ho sostituito il nodo davanti con l’annodatura dietro
la schiena, come spesso fanno in Giappone con tutte le cinture.
Fate
come vi pare, l’unica cosa essenziale è che il nodo davanti non
sia d’impiccio nel manovrare il fodero e la spada.
I
colore dei vestiti varia secondo la scuola. La hakama in genere si
trova blu per il kendo e nera per l’aikido, con un po’ di fatica
si trova anche bianca.
Sfatiamo
un mito. La hakama non è un vestito liturgico, mistico e iniziatico:
sono solo i calzoni dei Giapponesi da quando hanno smesso di
legarseli con delle ciocie sotto al ginocchio. Di conseguenza, e vale
per la giacca o camicia che dir si voglia, il colore o la fantasia
sono a libera scelta di chi l’indossa. Al massimo si può dire che
sono dei calzoni eleganti, ma niente di più.
Ovviamente
le hakama di lana o di colori vari o fantasia si trovano solo in
Giappone, quelle che si possono comprare qui nei negozi specializzati
sono il tipo per la pratica delle arti marziali, in cotone o misto. E
sono dei colori detti.
Se
volete seguire i colori della KJK dovrebbe essere nera o gialla, ma
non ha nessuna importanza poiché i colori sono tratti dal mio mon
che ho adottato, naturalmente, anche per la scuola. Se voi avete un
vostro mon o ve lo fate, potreste usare i colori che preferite.
Quando
insegnavo avevo ideato una soluzione per chi non potesse o non
volesse spendere soldi nell’acquisto della hakama.
Si
tratta di procurarsi un drappo di cotone, di un paio di metri di
lunghezza per circa uno e mezzo di altezza, per esempio ricavandolo
da un lenzuolo.
Poi
quella stoffa si può drappeggiare in vita in due modi.
Il
primo è all’indiana, ossia prendendo le due estremità dei lati
lunghi e incrociandole davanti all’ombelico e poi fatte passare
dietro fissandole rivoltando una volta o due il bordo della sottana
che si viene così a formare.
Il
secondo consiste nel posizionare un lembo del drappo in verticale
davanti all’ombelico e arrotolare l’altro in panneggi via via
sempre più stretti e centrati, poi arrotolare il bordo, in modo che
la ricchezza sia tutta davanti e permetta il libero movimento delle
gambe.
In
entrambi i casi la cintura va ovviamente sopra, mentre con la hakama
la cintura, per mettere la spada, si può raggiungere dalle aperture
laterali dei calzoni. Quindi si mette sopra la giacca. Non sarebbe
strano però metterla sopra la hakama come spesso facevano i
Giapponesi.
Se
guardate le stampe e le raffigurazioni storiche vedrete che prima di
usare la hakama i Giapponesi si mettevano un drappo con cintura,
dunque non mi sono inventato niente che già non esistesse.
Sopra
si può usare una giacca da karate o simile o una maglietta, larga e
a tinta unita, a cui sono state tolte le maniche o una camicia senza
maniche e colletto, come per chi duellava nella nostra scherma.
Non
è solo teoria: la consiglio perché io stesso mi vesto così quando
mi alleno per poco e non ho voglia di vestirmi con la hakama e tutto
il resto.
Sarebbe
ammissibile anche praticare a torso nudo, ma non è consigliabile se
si è in gruppo.
Il
dojo
È
il luogo di pratica. Ovviamente ognuno ha quello che si può
permettere: da casa sua al parco, alla palestra ecc…
Il
miglior pavimento, va da sé, è il parquet di legno, addirittura se
al naturale e non lucidato, ma l’unica cosa davvero importante è
che sia piano per non rischiare di farsi male e meglio se ci si può
scivolare coi piedi.
Quello
che mi preme dire è che, se non ci sono motivi particolari del
gruppo di pratica, riserverei a una scelta personale se salutare il
dojo quando si entra e quando si esce.
Il
rispetto per il dojo si fa praticando con impegno e dimostrando
cortesia verso i compagni e non con l’abitudine di fare un inchino
frettoloso all’inizio e alla fine. O stando sempre cupi e seriosi.
Imprescindibili
invece i saluti fra i partecipanti come dirò nella parte di tecnica
individuale. ″ ››
nota:
il titolo del libro è ripreso da un tanka di Bashoo di cui ho già
parlato nel post “Da Saffo a Shiki” sui tanka e i lirici greci.
R.P.
posteris
memoria mea