In
questo secondo post sui possibili parallelismi fra composizione architettonica
e poetica, vorrei affrontare due temi che forse più di ogni altro determinano
le scelte di composizione nell’architettura: il rapporto con la storia
dell’architettura e il rapporto con la città.
È
necessaria prima una precisazione riguardo alla prassi progettuale.
Quando
ho descritto i primi due principi della composizione architettonica ho fatto
riferimento allo studio preliminare sul sito del progetto e sulla tipologia che
si vuole progettare. Anche qui non esiste un metodo universale per fare questa
analisi, o meglio, al solito ne esistono tanti. Alcune linee di pensiero danno
molta importanza all’analisi preliminare, altre decisamente no. Nella mia
formazione è stata sempre più centrale l’intenzione progettuale nei suoi
significati che l’analisi urbana o tipologica.
Aggiungo,
per chi ha conosciuto un po’ le correnti di pensiero del dibattito
architettonico negli anni ottanta e precedenti (già nei novanta qualcosa stava
cambiando, in peggio ovviamente), mi sono laureato nella, chiamiamola, scuola
gregottiana, dal nome del professor Vittorio Gregotti. Miei relatori di tesi
sono stati i professori Raffaello Cecchi e Vincenza Lima (gregottiani appunto:
galeotto fu lo Z.E.N. e chi lo progettò...) che ringrazio, a distanza di quasi
trent’anni, per quello che mi hanno insegnato, nonostante i nostri rapporti poi
si siano interrotti non nel migliore dei modi (per colpa loro).
Dunque,
dicevo, non sono la persona adatta per chi volesse sapere come la progettazione
architettonica derivi da un metodo scientifico di analisi urbana. Oltretutto
non ci credo.
In
realtà lo studio della zona interessata dal progetto si mischia da subito con
le prime ipotesi progettuali e sono proprio queste che possono servire per
sondare e comprendere il territorio e il sito del progetto. E sapere cosa
occorre fare e come.
Questa
premessa per dire che i due argomenti di specie appartengono più alla
formazione generale del progettista che non al tema compositivo in senso
stretto, a meno che questo non suggerisca un approccio in un modo o nell’altro
rispetto appunto alla storia dell’architettura e alla città. Non esiste quindi
un prima e un dopo dei diversi principi compositivi, li espongo in un ordine
per la semplice ragione che è impossibile far diversamente.
Sul
primo tema direi che si può tranquillamente affermare che tutta la storia
dell’architettura (intesa come il complesso della produzione architettonica), e
quindi della composizione architettonica, consiste nel rapporto fra
l’architettura e sé stessa. Non sarebbe neppure da mettere fra i temi
compositivi, data la sua importanza per l’esistenza stessa dell’architettura,
se non fosse che questo rapporto è stato in vario modo messo in dubbio fin
dagli inizi dei movimenti di architettura moderna (è la critica più
inoppugnabile, anche se non sempre totalmente veritiera, che si fa a tutta
l’architettura moderna, dalle avanguardie al Movimento Moderno e successivi). A
ben guardare anche il rapporto con la città ha vissuto più o meno una sorte
analoga. In tempi più recenti alcuni movimenti hanno teorizzato e praticato un
ritorno a un rapporto più stretto con l’architettura storica.
Basta,
mi devo fermare perché non posso né fare una seppur breve storia dell’architettura
né dare conto degli esiti compositivi sia dell’esperienza del moderno sia di
quella del, chiamiamolo, post modernismo. Ci vorrebbe troppo spazio e poi
uscirei dal tema.
Faccio
giusto degli esempi per chiarire di cosa si parla. Se poi non capite proprio
una parola di quello che sto dicendo: meglio ancora! Così almeno avete un
motivo per non commentare.
Diciamo
che tutti i periodi o i cosiddetti stili dell’architettura, almeno da quella
greca in poi, si possono dividere fra quelli classicisti (per l’architettura
greca ante litteram s’intende) e quelli non classicisti (raramente
anticlassici, nonostante quello che si legge spesso).
È
chiaro che in un momento di classicismo, e in architettura e nell’arte in
genere (tranne, non so perché, nella musica) per classicismo s’intende il
periodo o lo stile che si rifà ai canoni dell’architettura e dell’arte greca,
il riferimento ai modelli classici è il principio definitivo della composizione
architettonica. Ne deriva che nei periodi non classicisti, che in definitiva
sono Gotico, Neogotico, Eclettismo ottocentesco, e nel suo complesso l’architettura
moderna (in buona sostanza) vi siano altri principi compositivi.
Per
gli addetti ai lavori: non fate troppo gli schizzinosi. La carta costa e capite
il senso di questi post.
Altra
precisazione inutile: è ovvio che mi riferisco all’architettura europea e poi
occidentale.
Allora
il rapporto con la storia è come il nostro nuovo progetto si relaziona con
tutti quelli precedenti e con quali. Proprio così. Non solo i periodi e gli
stili, non solo se riutilizzarne alcuni o no, e come e perché, ma anche con i
progetti della nostra contemporaneità.
È
quello che si chiama(va) il ‘ dibattito architettonico ’.
Presento
due esempi di diverso atteggiamento con la storia dell’architettura e
volutamente sono dello stesso architetto e sempre dell’architettura moderna
perché è la nostra storia dell’architettura più vicina e con la quale dobbiamo
(dovremmo) rapportarci.
Il
primo esempio è la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni, a Como (per i non
italiani è l’altro ramo del lago rispetto a quello dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni) del 1936.
Terragni
è uno dei massimi esponenti del Razionalismo italiano. Nella Casa del Fascio
(Terragni era fratello del Podestà di Como) abbiamo un altissimo esempio di
architettura razionalista fra i cui principi c’era un distacco con ogni genere
di riferimento all’architettura storica.
Eccone
la planimetria e i prospetti e una foto.
Vi
propongo una piccola riflessione-digressione. Tutti sanno che lo stile
ufficiale del ventennio fascista fu il Novecentismo (Piacentini e compagnia
cantante...). Andate, se volete, a cercarvi la villa che Mussolini regalò alla
sua Claretta sul litorale laziale: purissimo stile razionalista. Un’idea di
architettura per le masse e un’altra per la sua donna. Ma anche una per i
contadini, una per gli operai, una per i borghesi... Opportunismo o
insospettato pluralismo? Dilemmi artistici di un uomo dall’ingombrante potere o
idee confuse? La Storia non è mai semplice.
Il
secondo esempio, sempre di Terragni è il Danteum, un progetto non realizzato di
un museo dedicato a Dante, del 1938 a Roma.
Ecco
di seguito la planimetria e un plastico.
Si
nota subito il ricorso alla colonna, segno di continuità con la storia di valenza
assoluta e si può dire simbolica, ripresa con tanto di citazione dei capitelli,
riconoscibili nel trattamento lapideo del muro, che peraltro richiama l’opus
mixtum dell’architettura romana (come riferimento formale perché l’opus
caementicium non era di pietra, ovviamente, ma di mattoni e malta, ma con
possibile inserzioni di pietra e questo è molto significativo per l’invenzione
di Terragni).
Il
committente è lo stesso: Mussolini. E qui si torna alla riflessione... Ma ciò
che è importante è il differente approccio di Terragni per casi affatto
differenti.
Per
ciò che concerne il rapporto con la città si intende quanto si considera come
indipendente la nuova costruzione dalla natura del sito in cui si lavora.
Naturalmente è uno dei primissimi aspetti, se non addirittura il primo, che si
presentano alla mente del progettista. La relazione o meno della nuova
architettura con la città può essere determinata da motivi linguistici (lo
stile a esempio) o di omogeneità fra vecchio e nuovo, o ragioni di carattere
ideologico (dall’aspetto ‘ rivoluzionario ’ della nuova architettura a
questioni di viabilità o pubblicitari e altri anche molto prosaici) o
tipologici.
Un
caso limite può essere dato dagli odiosi disegni di Le Corbusier in cui si
vedono degli aerei che bombardano il centro storico, considerato irrecuperabile
al nuovo modo di vivere della società industriale. In altri casi si può
decidere per una scelta simbolica: un’emergenza monumentale della città alla
quale ci si relaziona per collocare il nuovo edificio nel nucleo urbano. È il
metodo delle scuole percettiviste.
Si
vede da queste poche annotazioni che il tema del rapporto con la città si
avvicina a quello ombelicale del rapporto con la storia dell’architettura. Il
motivo è che in entrambi i casi ci si pone il problema del rapporto con
l’esistente. Tema non da poco se si considera che una definizione accettabile
dell’architettura potrebbe essere quella di una disciplina che trasforma in
modo permanente il territorio. Nel senso che dopo un intervento architettonico,
anche distruggendo l’ipotetico edificio sbagliato, quel luogo non sarà mai più
come prima, non fosse altro che nella sua storia c’è stato per un periodo
quell’edificio.
Da
questa considerazione consegue la grande responsabilità dell’architettura in
senso anche sociale e politico.
Per
illustrare questo tema porrò tre esempi. Due di rapporto negato con la città e
uno di rapporto al contrario addirittura mimetico con il territorio, con la
campagna.
Il
primo è il Quartiere
Siemensstadt di Walter Gropius e altri, del 1929-31 a Berlino.
Ecco la planimetria
generale e una foto degli edifici di Gropius.
Le
Siedlungen razionaliste si dispongono lungo l’asse eliotermico, all’incirca
nord-sud, per avere una migliore esposizione sia come soleggiamento sia come
riscaldamento naturale. Sono inerti alla disposizione viaria esistente con la
quale di fatto non hanno rapporto, e di conseguenza anche con il resto della
città. Si costituiscono come dei nuovi pezzi di città indipendenti. La viabilità
che le riguarda è solo quella interna al progetto (condizione necessaria per
non dover marciare nel fango per raggiungere casa). Spesso a queste motivazioni
a carattere di salubrità si sono sostituite motivazioni meno nobili come la collocazione più efficace sul piano della
percezione e della raggiungibilità dei parcheggi nei centri commerciali.
Naturalmente
questa scelta di ignorare la viabilità esistente segna una soluzione di
continuità con il tessuto urbano esistente, per sostituirlo con uno più funzionale
al miglioramento delle condizioni di vita. Che questo sia realmente successo è
un altro paio di maniche e il dibattito sulla radicalità del Movimento Moderno
rispetto all’esistente è infinito sia nel senso della dimensione sia in quello
della durata. Noterete, spero, la contiguità col problema della relazione con
la continuità storica di cui si è parlato prima.
Il
secondo esempio è famosissimo. È il Centre Pompidou al Beaubourg di Parigi di
Renzo Piano, del 1971 (concorso). Qui lo stesso Piano ha giustificato la sua
scelta di ignorare l’esistente, al di là dell’ovvia esaltazione estetica della
tecnica (Piano appartiene a quella corrente che si può compendiare sotto il
nome di Hi-tech), con l’argomento che il quartiere, fatto di edifici piuttosto
seriali di fine ottocento, non gli davano spunto per una relazione fruttuosa.
Ecco
del Beaubourg una veduta dall’alto e una sezione longitudinale in cui si
possono vedere gli edifici e il tessuto esistente del quartiere.
A
questo punto dovrei mettere un esempio di buona architettura, come tutti quelli
che metto, in cui risalti il voluto e cercato rapporto con la città storica
(nel senso detto di precedente al momento del progetto) ma i casi sono
moltissimi, da quartieri che cercano una saldatura o addirittura la ricucitura
del tessuto urbano a ogni edificio che si costruisce in pizzo a una via e che
risolva il rapporto con le case vicine. Non saprei nemmeno quale scegliere...
Anzi
no, uno ce l’ho e mi è venuto in mente proprio adesso mentre scrivo e credo sia
sconosciuto ai non architetti. È la Casa della Meridiana di Giuseppe de Finetti
a Milano, del 1925. È interessante perché ha ispirato molti architetti
successivi (notare il coronamento a forte aggetto che ha la sua origine in Palazzo Farnese di Michelangelo e la sua
fine nei progetti di Aldo Rossi) nel tentativo di conciliare le istanze dell’architettura
moderna con il rapporto con la storia dell’architettura e con la morfogenetica
della città. De Finetti è un architetto che dovrebbe essere più conosciuto e
riconosciuto nei suoi meriti.
Metto
la planimetria del piano terra e una veduta attuale.
Concludo
coll’ormai quarto esempio che è l’unità residenziale Ovest della Olivetti a
Ivrea di Roberto Gabetti e Aimaro Isola, del 1969 e seguenti. Gabetti e Isola
sono un caso quasi unico di poetica del ritorno a ciò che c’era prima del
costruito, ossia la campagna, e fra i pochissimi che accettino un rapporto di
mimesi con l’esistente.
Di
seguito la planimetria con sezione e prospettiva con sezione e una veduta
suggestiva.
Proviamo ora a istituire dei possibili parallelismi
con la composizione poetica.
Il primo caso che ho trattato era la continuità o
discontinuità con la storia. Lascio ai letterati accademici di fare riflessioni
affini alle mie su questo rapporto, io mi limito, al solito, a proporre degli
esempi che, secondo me, possono essere
visti come trasposizione dei principi della composizione architettonica.
Per sceglier un esempio di continuità voluta con la
storia avrei potuto prendere un qualunque sonetto, da Shakespeare in poi.
Preferisco proporvi una poesia di Giuseppe Ungaretti nella quale scorgo il
tentativo, attraverso l’utilizzo di accenti sdruccioli, di ricreare la sonorità
del verso classico greco, di riformare un ritmo secondo la ‘ legge del trocheo
’.
Si tratta della
Nascita d’Aurora, fra l’altro un tema
a me assai caro. Mi sono permesso di evidenziare gli accenti.
Nascita
d'Aurora
Nel suo dòcile manto e nell'auréola
dal seno, fuggitiva,
deridendo, e pare inviti,
un fiore di pàllida brace
si tòglie e getta, la nùbile notte.
È l'ora che disgiunge il primo chiaro
dall'ùltimo tremore.
Del cielo all'orlo, il gorgo lìvida
apre.
Con dita smeraldine
ambìgui moti tèssono un lino.
E d'oro le ombre, tacitando àlacri,
inconsapévoli sospiri,
i solchi mutano in làbili rivi.
Notevole il verso ‘ Del cielo all’orlo, il gorgo
livida apre ’ che possiede una tonalità sdrucciola in sé.
Come esempio di discontinuità con la storia una poesia
famosissima in versi sciolti di Giacomo Leopardi: L’infinito, dove non ricorre nemmeno una rima e neppure
un’assonanza o consonanza. Cosa che non appare in tutte le poesie leopardiane:
qua giustamente sì, in altre ogni tanto sbuca qui o là una rima che a quel
punto centra poco. Al verso decimo compare un ‘ quello ’ che non è il massimo.
L’infinito
Sempre
caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
L’altro
tema era il rapporto con la città. La città delle poesie è un insieme di
composizioni che si possono raggruppare per un certo motivo. La continuità deve
riprodurre un’affinità col tessuto urbano-poetico, almeno.
Un
esempio di poesia diametralmente ostile all’esistente, in modo provocatorio e
anche divertente è il poemetto Zang zang
tumb di Filippo Tommaso Marinetti, manifesto della poesia Futurista. Se
cercate l’omologo in architettura guardate Antonio Sant’Elia.
ogni
5 secondi cannoni da assedio sventrare
spazio con un accordo tam-tuuumb
ammutinamento di 500 echi per azzannarlo
sminuzzarlo sparpagliarlo all´infinito
nel centro di quei tam-tuuumb
spiaccicati (ampiezza 50 chilometri quadrati)
balzare scoppi tagli pugni batterie tiro
rapido violenza ferocia
regolarità questo
basso grave scandere gli strani folli
agita-
tissimi acuti della battaglia furia affanno
orecchie occhi
narici aperti attenti
forza che gioia
vedere udire fiutare tutto
tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare
a perdifiato sotto morsi schiafffffi traak-traak
frustate pic-pac-pum-tumb bizzzzarrie
salti altezza 200 m. della
fucileria.
Giù giù in fondo all'orchestra stagni
diguazzare buoi buffali
pungoli carri
pluff plaff impen
narsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack
ilari nitriti iiiiiii... scalpiccii tintinnii
battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac
[
LENTO DUE TEMPI ] Sciumi Maritza
o
Karvavena croooc-craaac grida delgli
ufficiali sbataccccchiare come piatttti d'otttttone
pan di qua paack di là cing buuum
cing ciak [ PRESTO
] ciaciaciaciaciaak
su giù là là intorno in alto attenzione
sulla testa ciaack bello Vampe
Forse
la cosa che ha fatto più successo è stato l’uso tipografico che dà alla
composizione anche una valenza grafica. Da notare a questo proposito la
spaziatura che lascia come un posto nella battuta musicale ai rumori e le
indicazioni del tempo di esecuzione.
Come
esempio di ricerca di ricucitura con il tessuto della poesia tradizionale,
invece dei suoi sonetti a volte persino mimetici, appunto preferisco citare una
bella poesia di Andrea Zanzotto: Sagra.
In cui la parte iniziale è di fatto un sonetto e poi la composizione continua
con un rincorrersi di rime secondo uno schema che somiglia allo stesso dei miei
canoni, scusate l’autocitazione ma non intendo affatto compararmi con un poeta
acclamato e riconosciuto, solo dire che nel mio minuscolo in certe
sperimentazioni ci sto provando anch’io. Tutto lo schema è tenuto da terzine di
novenari e un senario nella parte sonetto (cioè fino a ‘ orizzonti ’) e poi è
un fuga sempre però di alternanze di novenari e senari.
Sagra
Ah sì? C‟è la sagra? C‟è ancora
la sagra
lassù a Valmareno?
“Non
vedi? Non è come allora?”
C‟è tutto sereno.
“Ma è
dunque la sagra paesana
nel tempo
remoto già morta?
É dunque
per me ancora sorta
la sagra
lontana?
C‟è ancora un sereno di monti
che
guarda, di sopra la chiesa,
ai verdi
infiniti orizzonti?
E, dimmi,
tra fiori e corone
C’è
ancora, è discesa
la
processione?
C’è
ancora la via tra i roseti
nell’aria
che a sera tremava
di
frulli, di risa?
C‟è ancora il sonare dei
lieti
campani
che placido andava
pei
boschi segreti?
Ci sei
dunque ancora o fanciulla
Che amai
tra le risa e tra i gridi,
Fanciulla
mia pallida, un nulla
Che più non rividi?
Per
me la cosa continua a marciare e mi sembra interessante. Continua...