Quando
cominciai a scrivere in poesia mi accorsi, quasi subito, che la composizione
poetica ha delle affinità con la composizione architettonica, e forse per ciò
mi appariva familiare. In una parola quello che le rende simili è la necessità
di dire quello che si ha da dire con relativamente pochi segni e la poetica di
dirlo in modo esatto. A differenza della narrativa.
È
un affermazione un po’ troppo sintetica, me ne rendo conto, ma non ho voglia di
argomentarla in ambito letterario, non mi spetta e non mi pagano per farlo.
Nella mia esperienza è così.
Vorrei
invece provare a esporre alcuni elementi di composizione architettonica e
vedere se se ne possono fare dei parallelismi con la composizione poetica.
So
bene che sarà un argomento che non fotterà niente a nessuno e che la
maggioranza dei lettori non riuscirà a capire, probabilmente neppure gli
studenti di architettura, ma non m’importa: mi va e lo faccio. Diciamo che mi
ricorda i bei tempi. Non so nemmeno come verrà, ma qualcosa di interessante ne
uscirà di sicuro. Parlare di composizione architettonica mi diverte e mi
rilassa. In più farò contento qualche amante dell’antiquariato evocando
qualcosa che non si usa più.
Prima
d’iniziare faccio un breve inciso. Ho deciso di parlare di questo argomento
poiché non ricevo commenti sulle poesie o sui temi letterari, dunque tanto vale
che scriva di ciò che mi appassiona.
Con
mia sorpresa, ho visitatori del mio blog anche dall’estero e non pochi, penso
siano italiani residenti all’estero. Credo sia così perché io so scrivere solo
nella mia lingua. Ebbene escludendo gli Stati Uniti, secondi dopo l’Italia, per
l’ovvio motivo che è Google che attiva e archivia le pagine del blog ogni volta
che sono prodotte, nei due sistemi Windows e Mac, il primo dall’estero è in
questo momento la Francia. Seguono a ruota Russia e Ucraina che stanno facendo
una sorta di gara, lo dico scherzando ovviamente. Della cosa, in questo momento
storico, non so se essere felice o preoccupato. Manca la Spagna in modo
significativo, per via della lingua molto simile intendo, ma ritengo che
dipenda dal fatto che un italiano, reso disoccupato dall’euro, in questo
momento vada a cercar lavoro più in Francia che in Spagna.
Partiamo.
Allora, immaginiamo che un architetto debba fare un lavoro in un certo luogo.
Per prima cosa dovrà analizzare e studiare il sito e la città dove va a
costruire o progettare, parimenti farà le stesse cose sulla tipologia che deve
progettare: residenze, fabbriche, ospedali ecc... Fin qui è tutta analisi
urbana, tipologica e funzionale. In seguito ognuno deciderà cosa farne, ossia
in che misura tenerne conto. Poi progetterà e non stiamo a seguire la prassi
progettuale o men che meno il metodo poiché non ve n’è uno o due ma ognuno ha
il suo e spesso nemmeno lo stesso per due progetti diversi.
Però
nella sua composizione, benché sospinto a mille impulsi di vario genere:
poetici, funzionali, tecnici, induttivi e deduttivi, immagini di architetture
che ha visto via via aggiungendo fino a quello decisivo cioè come gli va con la
moglie (o il marito è ovvio), dovrà sempre essere cosciente se quello che fa è
utile al raggiungimento dei requisiti di ogni genere che s’è posto per il suo
progetto. Non solo ma soprattutto se ogni cosa, ogni segno che mette sulla
carta, non contraddica ciò che si è appena dichiarato d’ottenere. Deve avere
cioè una capacità di autoanalisi e autocritica che è la dote che più identifica
la composizione architettonica nel suo complesso. Ogni tratto di matita ha un
valore semantico, questo significato deve essere coerente con gli obiettivi del
progetto, sotto tutti i punti di vista, sia funzionali sia poetici.
È
questo in fondo che s’impara culturalmente studiando la composizione
architettonica e progettando l’architettura. E fra l’altro è molto utile nella
vita, ma chi non l’ha provato non può capire e scambierà questa affermazione
come una sparata nostalgica.
Nel
far questo l’architetto ha però alcune regole che, se non gli danno la
soluzione, almeno lo aiutano a controllarla e a indirizzarla.
Immaginate
un architetto che sta in piedi e guarda il luogo dove dovrà costruire o osserva
la planimetria del sito.
Una
prima regola è stabilire se la sua composizione sarà aperta o chiusa.
Una
composizione aperta stabilisce dei rapporti con ciò che ha intorno, una chiusa
tenderà a negarli o a farne passare solo alcuni (anche nel caso di composizione
aperta è possibile fare una selezione: sostanzialmente il progettista utilizzerà
strumenti afferenti alla percezione o alle regole d’ingresso, ma ne parleremo in
un altro post).
Faccio
un esempio se volete un po’ banale, ma che chiarisce benissimo il concetto.
Progettando un giardino vedete se intorno ha dei begli edifici, un bel panorama
ecc.. se sì tenderete ad aprire la vostra composizione verso appunto ciò che
c’è di bello, se invece non è così vorrete escluderli e la vostra composizione
sarà chiusa, ossia si guarderà relazionandosi solo con le sue parti.
In
architettura è tutto un po’ più complesso naturalmente, diciamo, per capirci,
che la scelta dipenderà il più delle volte dalla stratificazione storica del
sito, del quartiere e della città che avete in esame, in tutte le declinazioni
possibili di questa definizione forzatamente generale.
Vi
propongo un esempio tratto dalla storia dell’architettura. Ho scelto
dall’architettura moderna perché spero di aiutare qualcuno a prendere coscienza
della morte cerebrale in cui versa oggi la nostra arte (magari uno studente:
quando stavo in Facoltà ero un ottimo tutor).
L’esempio
di composizione aperta è il Padiglione Tedesco all’Esposizione Internazionale
di Barcellona del 1929 di Ludwig Mies van der Rohe.
La
continuazione, anche ideale, dei muri rende il concetto meglio di ogni altro
esempio. Seguono la planimetria e una foto che mostra bene il principio della
percezione in movimento dell’architettura moderna.
Dico
subito che le immagini le ho prese googolando e ai miei tempi fra architetti
era normale fregarsi le foto, se qualcuno ne ha il copyright capisca il senso disinteressato per cui le ho prese e
non rompa i coglioni. Se qualcuno romperà le palle, le tolgo e ne metto altre identiche
di proprietà di qualcuno con un po’ più di buon senso e cortesia.
L’esempio
di composizione chiusa è il Monastero delle Monache Domenicane di Media,
Pennsylvania, U.S.A., di Louis Isidore Kahn, del 1965. È una composizione
chiusa indipendentemente dal fatto che sia un monastero, o forse no... Di
seguito la planimetria e un plastico.
Kahn
è un architetto meno conosciuto al
grande pubblico e senz’altro minore rispetto al colosso Mies, ma è un progetto
che ha fatto parecchia fortuna in seguito, soprattutto quando è stato
assimilato alla Villa Adriana di Tivoli (vicino a Roma: per i non italiani).
Un
altro principio compositivo è la composizione sintattica o paratattica.
Nella
prima, le parti del progetto tenderanno a costituire un’unità formale di
livello superiore. Lo possono fare con una visibile articolazione dei volumi
(caso più che piano è l’architettura organica) oppure in un corpo più compatto
di maggiore enfasi espressiva. O vie intermedie naturalmente.
Nella
composizione paratattica corpi di fabbrica analoghi, se non addirittura
identici, si dispongono secondo una regola d’ordine (che dipenderà in genere
dal sito: orografia, assi viari ecc...). Delle case a schiera sono il più
immediato esempio di composizione paratattica.
L’esempio
di composizione sintattica è un caposaldo dell’architettura moderna: il
Sanatorio di Paimio (in Finlandia) del grande Alvar Aalto, del 1928,
architettura organica appunto. Per gli addetti ai lavori è l’edificio che ha
consolidato il principio della facciata laterale di sezione, gli altri chiedano
se non sanno cosa vuol dire. (I Giapponesi dicono: ‘ chiedere è la vergogna d’un momento, restare ignoranti è
la vergogna di tutta una vita ’). Di seguito planimetria e una bella veduta
aerea.
L’esempio
di composizione paratattica è il Kiefhoef (villaggio operaio) a Rotterdam di
Jacobus Johannes Pieter Oud, del 1926. Stupendo esempio di purismo razionalista
dopo il parziale allontanamento di Oud dal movimento De Stijl. Come al solito
la planimetria e una veduta dalla via.
Vediamo
possibili comparazioni con strutture poetiche. Non metto le date perché ci
arrivate da soli.
Un
tipo di composizione poetica aperta è, a mio modo di vedere, la terzina
ageminata che è la regola compositiva della Divina
Commedia di Dante Alighieri. Lo schema è ABA BCB CDC ecc... Cioè il verso
interno diventa il primo e il terzo della terzina successiva. La composizione
si apre evolvendosi in teoria all’infinito.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura!
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura!
Tant' è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
Et
cetera...
Un
esempio di composizione chiusa è la strofa del cosiddetto sonetto provenzale
che ha come schema ABBA ABBA ecc... La forma speculare della strofa rimanda a
sé stessa (dico subito che sono fra quelli che seguono la teoria che,
differenziando se da sé, pensa più giusto accentare anche
nella locuzione sé stesso).
L’esempio
è tratto dal Canzoniere di Francesco
Petrarca.
Voi
ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
Da
notare che nella prima strofa sulla vocale tonica cambia l’accento: da grave (ò
aperta) ad acuto (ó chiusa).
L’esempio
per una composizione sia sintattica, all’interno dell’ottava, sia paratattica
nell’insieme del poema è lo Orlando
Furioso di Ludovico Ariosto.
Lo
schema dell’ottava rima è ABABABCC e costituisce un insieme chiuso per via
della ripetizione della rima alternata nei primi sei versi e del distico di
chiusura in rima baciata.
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
Ma nella composizione del poema le ottave si affiancano con schema
paratattico, sono susseguenti naturalmente.
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.
Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.
Et cetera...
Per il momento mi pare che funzioni. Io provo a continuare e vediamo cosa
sorte...