Quando
ho messo in relazione la composizione architettonica con esempi analoghi di
versi poetici intendevo suggerire un modo diverso di approcciare il tema della
critica letteraria. Non quello nuovo o il più giusto: uno in più. Le
conseguenze di questo nuovo punto di vista non sono però banali.
Ancora
una volta, qui mi capiranno di più coloro i quali hanno composto qualcosa nella
loro vita, e segnatamente nelle arti figurative o nella musica.
Ciò
che cambia è l’occhio, è il modo di vedere le cose. Un modo immediatamente
connesso con la materialità del comporre, privo (vorrei dire libero...) della
separazione entomologica fra critico e opera letteraria. In un parola è diverso
analizzare, anche con amore, un’opera d’arte e porsi il problema di mostrarsi
attraverso un’opera d’arte. Se si nasce con lo spirito compositivo si entra
nell’opera pensando come l’avremmo fatta noi e immaginando lo stato d’animo
dell’autore nel suo fare pratico, nel passare dall’intenzione alla forma. E se
si riesce a penetrare in questo livello il godimento estetico coinvolge molto
di più sia della comprensione analitica e critica sia della fascinazione
emotiva.
Naturalmente
ognuno può nascere con questo istinto progettuale o esserne privo.
Una
via di mezzo mi paiono gli interpreti musicali o gli attori, che in qualche
modo ricompongono a ogni esibizione, pur non essendo dei compositori in senso
pieno.
Mi
ricordo che una volta chiesero, durante un’intervista, a Arturo Benedetti
Michelangeli (e qui credo non sia necessario spiegare chi fosse nemmeno ai non
italiani... comunque era questo) se non avesse mai
pensato di comporre qualcosa. Egli rispose di no con aria quasi scandalizzata,
aggiungendo “ No, no: io sono solo un esecutore ”. Eppure potremmo affermare
che il suo genio, la sua sensibilità ed eleganza non partecipassero nemmeno un
po’ alla creazione o ri-creazione della musica che eseguiva? D’altra parte,
noi, cosa ne sappiamo di come fosse suonata la musica di Bach o Mozart o Chopin
da loro stessi?
Per
celebrare il 260esimo compleanno di Wolferl, detto anche Amadè, (e Google che
si ricorda del 127esimo e sei mesi di uno che ha scoperto l’acqua calda non se
n’è ricordato/a [Google è maschile o femminile?]) che come sapete cade il 27 di
gennaio, mi sono rivisto il “Don Giovanni” scaligero diretto dal grande
Riccardo Muti, con la regia di Giorgio Strehler, del 1987.
"Don Giovanni" Teatro alla Scala 1987 |
Nel
secondo atto, prima della prima scena in-credibile ossia quella del sepolcreto
(un’altra volta dirò perché la definisco in-credibile), arriva l’aria “ Mi
tradì quell’alma ingrata ” di Donna Elvira, interpretata dall’ottima Ann Murray
la cui voce forse non era già più freschissima.
Quest’aria
ha la caratteristica di avere il recitativo accompagnato addirittura più bello
dell’aria stessa. A mio insignificante parere quest’aria viene meglio se la si
canta non troppo in fretta. Il recitativo accompagnato è in genere
convenientemente pausato, piuttosto lento e interpretativo, e bellissimo
appunto. Ora, Muti ha sempre ragione, per definizione, ma mi è sembrato che
scegliesse, dopo il consueto approccio al recitativo accompagnato, un tempo
piuttosto veloce per l’aria. Laddove io presentirei un affanno più dell’animo
che non del ritmo.
Per
curiosità mi sono cercato lo spartito per vedere le indicazioni del tempo. E lì
indicava lo stesso tempo sia per il recitativo accompagnato sia per l’aria: allegro assai. La tonalità del
recitativo è in la minore e muta nell’aria in mi bemolle maggiore (credo...) ma il tempo è lo
stesso. Dunque c’è un intervento degli esecutori per rendere al meglio quella
parte di opera: l’interpretazione entra a far parte della composizione stessa.
Passando
al nostro orticello e alla affermazione del post, prendo a esempio la più
famosa composizione poetica italiana: la “ Divina Commedia ”.
Dante Alighieri attribuito a Giotto |
Secoli
di critica ci hanno proposto mille e una interpretazioni del poema di Dante (il
giorno del compleanno non si sa, ma era senz’altro dei Gemelli).
Una Divina Commedia del XIV secolo |
Non
mi metterò certo a parlare di questo: non saprei nemmeno da che parte
cominciare.
Ma
quello che normalmente si dice è che il poema è diviso in tre sezioni: Inferno,
Purgatorio e Paradiso e nella Commedia
Dante ha voluto illustrare le sue teorie spirituali e esoteriche in merito alla
religione cristiana. Questo in soldoni. E questo appare evidente a chiunque.
Intendo dire che è senz’altro così.
Allora
potremmo dire, come ho mostrato nel Danteum di Terragni, nei post
sull’architettura della poesia, che questa tripartizione sia la struttura
architettonica del poema. Come un grande tempio con tre spazi in successione in
ognuno dei quali succede qualcosa.
Ma
appunto cosa succede? Che Dante, accompagnato da una guida, incontra una serie
sterminata di personaggi di ogni tipo e di ogni epoca. Dunque una possibile lettura
della Commedia è che questo poema sia
soprattutto una composizione per personaggi, e che questo sia una ipotesi per
lo meno fondata lo è proprio il titolo originale “La Commedia”.
Il
percorso suggerito da Dante non sarebbe in questo caso una sorta di rivelazione
mistico esoterica, ma una narrazione della storia, dalla più antica alla sua
contemporanea, attraverso protagonisti che in alcuni casi sono i maggiori
attori politici, in altri sono sconosciuti o quasi.
Ciò
non vuol dire che le interpretazioni spirituali non esistano: l’opera è
talmente grande, in tutti i sensi, che contiene plurimi piani di lettura, ma
che la percezione del poema da parte nostra cambia poiché vediamo che la
struttura portante, per chiamarla così, non è il piano simbolico ma uno più
fitto di realtà storiche, politiche e letterarie alla quale Dante si sentiva
vicino almeno quanto a quella consueta delle significanze teologiche.
Se
tale ipotesi ha un valore, l’elemento allegorico appare come uno sfondo
necessario, o se preferite un continuum linguistico, come nell’architettura
sono appunto gli stilemi derivati dalla storia dell’architettura, che al tempo
stesso dà luogo e ricopre la vera struttura compositiva del poema.
In
fondo quando Dante scrive, ma prima concepisce la sua opera, si incontrano in
modo ancora duttile tre stili architettonici: Romanico nascente, Gotico che via
via si va affermando in Europa e, in Italia, il vetero classicismo bizantino,
che introduce l’elemento levantino così caro ai critici danteschi di stretta
osservanza.
Compiendo
un passo in più si vede che uno dei requisiti che i personaggi della Commedia devono avere è di poter essere
inseriti in categorie di vario genere: morale, storico, politico, letterario,
affabulatorio, sentimentale ecc... Dunque vi è una esigenza, verrebbe da dire
proprio scenica, di luoghi opportunamente connotati attraverso i quali
sistematizzare i caratteri. La scelta dei tre spazi dell’anima, Inferno,
Purgatorio e Paradiso, risponde perfettamente a questo requisito, come gli
spazi distributivi di un progetto architettonico soddisfano le loro esigenze.
Insomma la Commedia è una sorta di
gigantesco condominio della storia. Infatti per non perdersi occorre avere un
abile cicerone.
La
scelta della ragione teologica è anche il modo migliore per avere una traccia
per collocare nel posto giusto, in tutti i sensi, i vari personaggi: là dove
‘devono’ stare, dove ci si aspetta di trovarli, e con le dovute eccezioni che confermano
la regola.
La
scelta topologica dei tre luoghi sovrannaturali ha un altro compito che lega la
Commedia direttamente alla fonte di
tutti i poemi, mi riferisco all’epica omerica: essa permette di trattare
simultaneamente personaggi lontani fra loro nel tempo.
È
molto probabile infatti che i personaggi dell’Iliade e dell’Odissea possano
essere realmente vissuti, sono state ritrovate iscrizioni che nominano un
Halaksandus fra gli anatolici che poi diviene Paride Alessandro per esempio, ma
non necessariamente anzi quasi sicuramente non contemporanei. Alcuni sono
trasposizioni di miti, per esempio Achille, eroe probabilmente del ciclo degli
argonauti ma anche più antico, indoeuropeo, poiché è stato messo in relazione
con l’eroe celta Cuchulainn. L’origine indoeuropea si collocherebbe per
entrambi gli eroi fra il Mar Nero e il Mar Caspio. L’epica li attualizza tutti
col pretesto della grande guerra sotto Ilio e col ritorno di Odisseo. L’Odissea
contiene almeno tre sotto poemi: una Telemachiade, il viaggio di Odisseo,
strettamente legato al ciclo degli Argonauti, e il ritorno a Itaca dell’eroe.
Ogni capo all’assedio di Troia racconta forse un mito fondativo di una città.
Il requisito qui è che ogni polis e ogni comunità siano rappresentati affinché
i due poemi assurgano all’identificazione nazionale. Ma, per esempio c’è un
colossale anacronismo.
Se
gli archeologi hanno identificato correttamente lo strato di Troia VIIa come
quello della guerra, collocato per tradizione alla fine del XIII secolo a.C. e
gli storici non fallano definendo la spedizione contro Ilio come l’ultima
grande impresa micenea prima del crollo, ebbene in quel tempo la città egemone
nel mondo miceneo era Tebe e non più Micene, mentre, come si sa, il capo della
missione è Agamennone re della città del Peloponneso. Micene fu egemone nel
mondo miceneo secoli prima. Nella narrazione i miti tebani sono accennati da
Nestore che appartiene a una generazione invece più vecchia degli eroi che
combattono per la bella Elena.
Una
piccola digressione. Gli storici ci dicono che, sebbene il motivo ufficiale
della guerra contro Ilio sia la ‘fuitina’ di Elena col ganzo Paride, il motivo
vero fu la lotta per la supremazia dei traffici marittimi attraverso
l’Ellesponto, l’attuale Stretto dei Dardanelli. Peccato però che nei due poemi
non si parli mai di un porto di Ilio. Quindi questo potrebbe essere solo uno
dei motivi.
Quando
Odisseo torna in patria cosa trova? Un gruppo di principotti, assai maleducati
per vero, che però legittimamente fanno la corte a Penelope, mirando a sposarla
per divenire re di Itaca. Allo stesso modo Odisseo divenne il re di Itaca
sposando Penelope, probabilmente una figlia del pezzo da novanta del continente
che decideva chi governasse le isole. Dunque la sorte regia viaggiava per via
femminile.
Durante
le battaglie dell’Iliade si capisce chiaramente, è detto, che gli Achei
capiscono e parlano la stessa lingua dei Troiani, mentre non quella degli
alleati di Priamo che sono più lontani o dell’interno. Dunque i Troiani sono
Greci quanto gli Achei. Dunque, Menelao è re di Lacedemone perché ha sposato
Elena, che è figlia di Leda e sorella dei Dioscuri (Dios kuroi: figli di Zeus)
così che Elena non è solo bellissima ma anche un po’ divina.
Elena di Troia di Dante Gabriel Rossetti |
Del
resto chi aveva promesso Elena a Paride? Afrodite che era la Dea più venerata
della Laconia, soprattutto nell’isola di Citera.
Dobbiamo
immaginare che come gli Achei miravano a espandersi così anche i Teucri facevano
lo stesso. E se qualcuno avesse fatto fuori Menelao, il bel Paride avrebbe
sposato Elena potendo rivendicare il regno di Sparta, a un tiro di schioppo da
Micene capitale dei Micenei e reame del fratello di Menelao: l’Atride
Agamennone, capo della spedizione. Prova ne è che nel libro III quando i due
eserciti, stufi di scamazzarsi, decidono di affidare l’esito della guerra a un
duello, a chi propone che si scontrino i due campioni Ettore e Aiace Telamonio
(Achille essendo in sciopero) la turba risponde “Un paio di balle! È una
questione fra Menelao e Paride”. A Menelao prudono le mani e Paride comincia a
farsela sotto.
Non
è un motivo sufficiente per la guerra? E non è molto probabile che sia accaduto
davvero?
Infatti
quando Odisseo torna a Itaca, non ostante Penelope lo riconosca e poi lui si
palesi, a vendetta compiuta lei gli fa un bel terzo grado per vedere se è
ancora degno di essere suo sposo e re dell’isola. Del resto era partito
vent’anni prima dicendo “Esco a comprare le sigarette” e quanto a fedeltà
coniugale ne aveva fatte più di Carlo in Francia.
Penelope di Dante Gabriel Rossetti |
Tornando
alla questione della non contemporaneità dei personaggi, Omero risolve con un
grande evento epocale, una assoluta ricapitolazione, restando nell’ambito
mitico ed epico. Dante ricorre a una sublime architettura formale mistico
esoterica per risolvere lo stesso problema.
Mi
pare, per concludere, che l’idea possa essere stata suggerita a Dante proprio
da Omero, in particolare l’evocazione dei morti del libro XI dell’Odissea
quando l’eroe, seguendo le istruzioni di Circe, figlia del Sole, raggiunge il
punto in cui si può accedere all’Ade.
p.s.
per i non italiani.
Spiego
il titolo. Dante è la contrazione di Durante che è il nome con il quale fu
battezzato il nostro grande Fiorentino: Durante di Alighiero degli Alighieri.
Il nome non è l’avverbio durante: nessun padre è così fetente da chiamare suo
figlio con un avverbio. È il participio presente, usato come epiteto, del verbo
durare nel significato di perdurare,
mantenersi, essere forte e stabile ecc...