Ho
affermato, credo, che mi piace comporre poesie perché significa scrivere con
precisione. In ciò mi riferivo al confronto con la prosa, ma lo tengo per vero
in assoluto.
La
forma poetica sembrerebbe, a tutta prima, una scrittura in cui l’animo è libero
di librarsi a suo piacimento nel mondo immateriale della concezione. Ma
chiunque abbia scritto dei versi si rende conto che lo spazio è limitato (o
dovrebbe rendersene conto). Non lo spazio della pagina, bensì lo spazio
semantico oltre il quale la poesia non è più poesia.
Scrivere
in poesia non è parlare e parlare e ogni tanto andare a capo. Ogni verso deve
avere un suo peso specifico all’interno della composizione e tutta la
composizione deve tendere a un risultato.
La
prima implicazione di questo assunto non è, come sembrerebbe logico, la scelta
delle parole, che riveste un ruolo comunque notevole (ma mi sembra quest’ultima
una considerazione abbastanza inane). La prima evenienza dello scrivere poetico
è scegliere oculatamente cosa scrivere.
Non
mi sto riferendo agli argomenti ma al modo di comporre.
Facciamo
un esempio palmare. Decidendo di tentare di descrivere un’emozione che si è
provata, se cerchiamo di spiegarci in cosa consiste ci troveremo in un
affastellarsi di considerazioni, in parte logiche in parte illogiche,
separeremmo quello che si può analizzare in modo discorsivo e ciò che si può
invece solo sperimentare. Ogni considerazione ci porterebbe ad altre
riflessioni o sensazioni. Parleremmo per ore.
Il
problema è che scrivere una poesia non è come fare una seduta dallo
psicanalista, altrimenti ci porremo sempre o in uno stato di ricettività
esasperata per ogni cosa o in una selettività che inaridirebbe tutto.
Soprattutto
saremmo in uno stato di inferiorità permanente. Ma non verso il lettore, non c’è
e non mi interessa instaurare un rapporto gerarchico con chi mi legge, che
peraltro non pende dalle mie labbra. Lo saremmo noi nei confronti della nostra
stessa poesia. La nostra voglia di esternare ciò che proviamo ci renderebbe
eternamente succubi del mezzo col quale cerchiamo di ottenere il nostro scopo
comunicativo.
La
cosiddetta ispirazione consiste in una serie di ragionamenti molto veloci, più
della velocità normale del nostro cervello, con la quale analizziamo,
scartiamo, approviamo, eccetera tutti gli aspetti della questione, poi, in
virtù di una capacità di sintesi poetica, decidiamo quali concetti e quali frasi
possono in modo il più sintetico e sintattico illustrare meglio ciò che
proviamo.
Questa
è, credo, la prima fondamentale scelta di una composizione poetica. È per
questo motivo che, di solito, in poesia gli espedienti della narrazione
sospensiva della prosa non funzionano, o non così bene. Se scrivo un giallo non
dico subito che l’assassino è il maggiordomo, e anche lo dicessi devo tenere il
lettore facendogli scoprire come l’investigatore c’è arrivato. Persino se
scrivo di un amore devo dilungarmi spiegando come ciò sia stato possibile,
anche se la risposta è nella canzone di Ernesto Murolo: “Con l’amore è facile
tutto il difficile: se ha da succedere, succederà” (ho tradotto, sorry).
Apro
e chiudo una parente, come diceva Totò (per i non italiani: è un gioco di
parole che sostituisce parentesi, il
cui senso sta nei verbi aprire e chiudere).
Il
figlio di Ernesto Murolo, Roberto, è stato per me il miglior interprete della
canzone napoletana classica, quelle del padre o di Salvatore Di Giacomo o
Libero Bovio per capirsi, perché aveva capito che queste canzoni vanno cantate
con un filo di voce e con molta eleganza. Il cantarle a voce spianata le rende
una parodia della lirica, mancandole tutto l’apparato compositivo musicale
dell’opera, e nemmeno va cantata ‘ alle
vongole ’ che fa subito festa paesana. La qualità poetica del testo e la vena
melodica meritano di essere valorizzate con un’esecuzione graziosa ed
equilibrata.
Nella
poesia spesso è un verso che irrompe senza preambolo o presentazioni che
scatena la fascinazione. Quel verso è stato scelto come simbolo dello scopo
della composizione. Poi, come diceva Ungaretti, si prova, si riprova, si sente
che effetto fa all’orecchio, si sistema... ma dopo.
Quando
scrivo una poesia, e descrivo solo la mia prassi consueta senza voler affermare
che sia giusta o l’unica, dopo l’elaborazione mentale, detta ‘ispirazione’,
metto giù delle frasi, spezzandole in una specie di endecasillabo automatico.
Questo è un’ottima misura per la lingua italiana poiché produce delle piccole
proposizioni compiute. Poi se il senso compiuto della proposizione è superiore
alle undici sillabe convenzionali (per elisione, crasi o sinalefe, dialefe,
sineresi, dieresi ecc...) c’è l’inarcatura al verso successivo, quella che i
fighi chiamano enjambement. Prima di far tornare tutti i versi nella metrica
scelta mi rendo conto di quali sono i decisivi per il fine poetico, per l’insieme
o per le parti in cui è eventualmente divisa la composizione. Poi identifico
quelli propriamente descrittivi. Infine verifico quelli inutili.
A
quel punto la poesia è fatta. C’è solo da far tornare la metrica e dedicarsi
(ma questo continua anche nelle revisioni) alla ricerca delle parole più belle
o più precise.
Si
vede dunque che la scelta delle parole, da molti considerata l’essenza della
poesia, in sé non basta, è come una scheggia impazzita (una monade dicono
sempre i fighi, che non viene da mona, lo dico per i non italiani): non ha un
verso (in senso vettoriale), non può esprimere la sua forza perché è come non
sapesse dove appoggiarsi.
Si
scopre che l’anima, l’atomo della poesia è il verso e non la parola: non è poco
se ci si arriva.
Se
non ci si arriva, potrà essere utile il ricorso a un bellissimo film di Dino
Risi: “In nome del popolo italiano” del 1971, con Ugo Tognazzi e Vittorio
Gassman.
Tognazzi
è il giudice Bonifazi che indaga sulla morte di una ragazza e sospetta di un
imprenditore rampante, l’ingegner Santenocito, interpretato da Gassman.
Santenocito ha il vezzo di parlare, è per di più un logorroico, con parole
astruse e intricate anche per esprimere concetti semplici. Quando il giudice
glielo fa notare si giustifica dicendo che in certi casi è necessario e anzi
non se ne può fare a meno. Una battuta del dialogo dice, più o meno:
Santenocito:
“Ecco, per esempio, lei come renderebbe il concetto di desimplicizzato? Cosa
direbbe?”.
Bonifazi:
“Complicato...”.
Se
si usano parole ‘desimplicizzate’ si fa di sicuro colpo. Se si fa poesia si ha
bisogno di un verso, solo allora le parole usate potranno esprimere tutta la
loro valenza coinvolgente e daranno la fascinazione, il rapimento, lo stupore,
la contemplazione.
È
un’altra regola dell’architettura della poesia, derivata dal principio della
gerarchia delle scelte, decise liberamente le regole compositive tutto il resto
segue e si può ammettere la famosa ‘eccezione che conferma la regola’.
È
questo ciò che intendo con scrivere con precisione la versificazione poetica,
ed è in questo senso che la paragono alla composizione architettonica. Il suo
processo di costruzione, che impegna tutti i livelli mentali: intuizione,
espressione, analisi, formalizzazione, abbellimento, è lo stesso del progetto
architettonico, ma penso lo sia anche della composizione musicale o di altre
forme di composizione che non conosco.
Io
definivo la composizione architettonica, per l’ampiezza delle variabili che
sussume, una forma di raffinatissima enigmistica e lo sforzo di padroneggiarla
e giungere a un risultato soddisfacente è la bellezza del fare artistico.
Può
sembrare difficile ma che gusto c’è nel fare solo le cose semplici, facili e
che non richiedono sforzi?
Pubblico a
mo’ d’esempio una poesiola tratta da “ Lykauges ” nella sezione canoni.
In corsivo
ho messo i versi cardinali, in grassetto l’immagine generatrice, gli altri sono
introduttivi (i primi due) e descrittivi. I versi dal 4° al 7° si concatenano
legando le due parti della composizione (vv. 1-5; 6-10) per mezzo delle parole
forma e figura e dei verbi cambiare, trasformare, trasfigurare.
C’era una
poesia scritta a matita
su di un
piccolo pezzo di carta
che, spinta dal vento, saliva in alto
fino a trasformarsi in una nuvola
che muta
forma ogni momento.
Così le
poesie si trasfigurano,
salgono in cielo e si cambiano
in
preghiere e invocazioni,
in
cantici, a volte in una favola,
in vapore,
bestemmie e illusioni.
(schema: endecasillabi
AABCBDDECE)
La
scienza poi ci insegna che in caso di dubbio ci viene in aiuto la matematica.