martedì 19 maggio 2015

Su un tema, forse, della poesia



Proviamo a dire qualcosa su un tema della poesia dato per scontato.
Do per acquisito che ogni tema può spingere alla composizione poetica, è ovvio, non è che mi pongo e arrogo il diritto di sistematizzare un campo così vasto.
A volte però capita di leggere frasi apodittiche come “oggi non si scrive più in rima ”, su cui ho già incentrato alcuni post confutatori sui quali mi sembra inutile ritornare, oppure “ la poesia è nata come dialogo con sé stessi ”.
Su questo secondo punto, senza voler essere polemico con nessuno devo però fare delle precisazioni, anzi una sola: purtroppo non è vero.
Sorvolando sul fatto che ogni composizione poetica può essere un dialogo con sé stessi più o meno inconscio, sorvolo perché è banale, devo però rimarcare che i primi esempi di poesia non sono affatto dei dialoghi con sé stessi.
Dalle stanze della samhita del Rig Veda, penso la raccolta poetica più antica, passando almeno da Omero o i lirici greci, la poesia è soprattutto racconto, testimonianza, riflessione, che può contenere degli aspetti introspettivi, ma non come consideriamo noi il senso di dialogo interiore.
Spesso il racconto è denso di azione, a volte indugia su quello che ho definito la mia idea di poesia: vedere le cose, soprattutto quelle che si sono sempre viste, con occhi diversi.
Allora quando Omero deve dare una sensazione interiore di un personaggio (quindi oltre l’autodialogo) fa ricorso a un’immagine molto ben conosciuta dal lettore. Spesso è una frase del tipo: come, che so, un cervo fugge inseguito dai cacciatori e il suo cuore è in subbuglio, così pinco pallo si sentiva dentro a dover fare una certa cosa eccetera...
Si vede che, e del resto è inevitabile, nella tradizione della poesia orale si sta sempre parlando ad altri, mai con sé.
Oppure i poeti, intendo anche i successivi, parlano della situazione politica, sociale o fanno riflessioni di carattere generale su un dato argomento.
Anche quando parlano d’amore raccontano agli altri le loro sensazioni. Mi viene in mente Guinizzelli: “Chi vedesse a Lucia un var capuzzo... ”... gli salterei addosso, continua il poeta, nonostante l’intervento pompieristico degli accademici letterari che spiegano come in realtà volesse ammettere le sue debolezze carnali per pentirsene. Diciamo che a Lucia è andata bene, o male, a non passare proprio in quel momento con la sua dolce testolina avvolta da un bel cappellino di pelo di scoiattolo.
E cosa dire di Petrarca quando racconta che mirando la sua Laure, è finito in un fosso, mirava allegoricamente forse ma nel fosso c’è finito per davvero.
E tutti i poeti che sentivano il bisogno di comporre carmi su carmi su ogni monumento romano, a volte per introdurre un argomento a volte, ma solo a volte, per analizzare sé stessi di fronte a quel monumento. Ma perché avrebbero dovuto farlo se il loro scopo fosse stato quello di parlare con sé stessi. Lo potevano fare da muti e per noi andava benissimo così: ci ho già tanti casini per conto mio che mi manca solo di sentire quelli degli altri, che manco conosco.
Voglio dire che ci sono talmente tanti temi poetici possibili che mi accorgo di non saper nemmeno da dove cominciare se non dall’escludere l’autodialogo come radice della poesia.
Se scriviamo è perché abbiamo qualcosa da dire ad altri, al più concedo che lo si possa fare con l‘intento di esternalizzarla come oggetto di riflessione.
Io non scrivo mai una poesia per verificare se sono di buono o cattivo umore. Se scopro una sensazione forte dentro di me cerco di esprimerla in modo che anche chi legge possa farci una sua riflessione, e magari provo a spiegare perché quella sensazione m’ha spinto a esprimermi nei confronti degli altri, e perché lo ritengo possibile e utile.
Ciò che vado dicendo è meno banale di quel che sembra perché la tecnica delle canzoni di successo è quella di favorire un abbandono emotivo, che ha come solo scopo la riproduzione compulsiva di quello stato d’animo. Come capitava nell’adolescenza quando gli ormoni erano in libera uscita.
Accettando questo tipo di logica non si esce da una dimensione adolescenziale e consolatoria per limitarsi da sé a una pura fruizione emotiva (di pancia si usa dire oggi con una parolaccia, eliminando di conseguenza gli altri organi, a volte anche più nobili).
Ritengo sia più poeticamente interessante evitare il racconto dei propri stati d’animo così fine a loro stessi, come fosse lo sfogo di un acne giovanile o l’assenza di qualcuno con cui parlare: un poeta, e così anche uno scrittore, ha sempre con chi parlare, sono le sue parole, le persone che mette nei suoi componimenti, ciò che fa vivere in quello che elabora. Altrimenti è come scrivere su un foglio di carta senza avere nemmeno l’amico di matita o la ragazzina dai capelli rossi. Neanche Snoopy ci cascherebbe.