La
Chanson de Roland fu scritta nell’XI
secolo ed è uno dei primi poemi di gesta o cavallereschi, se non addirittura il
primo. Se si segue l’ultimo verso, l’autore sarebbe un certo Turoldo, non
meglio identificato. Appartiene all’evoluzione della letteratura in versi
trobadorica ed è l’archetipo di molti poemi dei secoli successivi. È una poesia
che andrebbe dunque pensata in musica.
Peraltro
ha un tono nettamente più storico e serio dei poemi successivi, come quelli
di Boiardo e Ariosto, dove prevale senza
dubbio il carattere di divertimento e fantastico. La qual cosa è spiegabile col
fatto che i cavalieri dell’anno Mille sono molto diversi da quelli cortigiani
del Rinascimento. Ma questo ci porterebbe fuori dal tema che voglio trattare.
L’episodio
storico che è all’origine della Chanson
de Roland è una spedizione della durata di sette mesi, durante il 778, che
Carlomagno condusse sui Pirenei. La sua retroguardia, comandata da un suo
vassallo, prefetto dei territori britannici, di nome Hruodlandus o Rothlandus o
Roland come si affermò poi, fu attaccata in un agguato dalle popolazioni basche
o guascone e distrutta. In quella battaglia, a Rencesvals (Roncisvalle) il 15
di agosto del 778, morì Roland, conosciuto in italiano come Orlando.
Il
fatto politico derivava da una richiesta di aiuto che il governatore di
Barcellona, Suleiman ibn al-Arabi (letteralmente: Salomone figlio dell’arabo),
contro l’indipendenza del Califfato di Cordoba.
Il
testo è stato scritto proprio fra la caduta dell’Emirato di Cordoba (1031) e il
bando della prima Crociata (1096) che si concluse con la presa di Gerusalemme
il 15 di luglio del 1099.
Quello
che intendo raccontare è un’interpretazione dei fatti del poema dalla quale si
ricava come il livello di cultura e di conoscenza dell’autore, e va da sé del
suo ambiente intellettuale, non sia quello dei secoli bui del medioevo e dei
primi balbettamenti della letteratura in volgare. Pregiudizio che è troppo
presente quando si parla di testi antichi. È un argomento che mi è caro
personalmente avendo scritto due romanzoni, più una saga in realtà, sul tema
dei cavalieri.
Il
poema è scritto in francese antico che appare piuttosto diverso dall’odierno. Seguo
il testo e ti propongo la mia lettura. I
versi sono tratti da “La chanson de Roland” della BUR, Milano, X edizione,
2010.
La
durata della guerra è aumentata a sette anni e già qui vedo, non solo un buon
argomento per rendere drammaturgicamente credibili le vicende narrate ma anche
un riferimento non casuale alla guerra di Troia. L’episodio storico è
sviluppato nell’ambito di una guerra fatale come quella di Ilio, appunto, o
quella analoga di Enea. Dovremo interrogarci sulla conoscenza dei poemi
omerici, in una qualche, totale o parziale, traduzione in latino e del poema
virgiliano.
Ad
ogni modo, le cose stanno così. Dopo sette lunghi anni Carlo ha conquistato
tutta la zona tranne la città di Saragozza che è ancora in mano al re saraceno
Marsilio.
Si
dice che Marsilio non crede in Dio ma in Maometto (Mahumet nel testo) e Apollo
(Apollin). E qui appare subito quella che sembra un’incongruenza, ben sapendo
che i musulmani sono monoteisti.
Ma,
riflettendo, convince di più pensare al fatto che l’armata saracena sarà stata
composta, come più avanti apparirà confermato, da un gruppo eterogeneo di
popoli i quali partecipano alla guerra non tanto per motivi religiosi (sempre
enfatizzati dalla critica in un campo e nell’altro) ma per bottino. La cosa è
confermata persino da alcune sure del Corano in cui il tema principale è la
spartizione del bottino e il fatto che i primi convertiti, finita la battaglia,
se ne tornassero a casa con il frutto della loro predazione. Dopo la sconfitta
di Uhud, alcuni di essi accusarono palesemente Muhammad di averli ingannati
perché promise che nel nome di Allah avrebbero vinto una ricca preda di guerra.
Nelle
lasse CCXXX e seguenti si dice che fanno parte dell’armata saracena, fra gli
altri, i Persi, gli slavi Leutizi, i Nubiani, gli Schiavoni (Slavonia), Armeni,
Mori, Negri, Cananei, Turchi, Unni, Ungari ecc...
È
nominata anche la terza divinità: Tervagante (Tervagan). È assai possibile,
anzi probabile, che i capi saraceni permettessero ai loro alleati di portarsi
le divinità in campagna militare piuttosto che ottenerne un rifiuto. E poi, che
Islam esisteva nell’VIII secolo? Consideriamo per esempio le cosiddette ‘trinità’
dei musulmani sciiti, la cui più importante è Allah, Muhammad e Alì.
Dice,
ma che c’entra Apollo? E se fosse un abu Allah o abu al-Ihla (magari col
suffisso plurale –in)? È solo un’ipotesi. Tervagante mi ricorda un Trismegisto
o un nome iranico, ma dico a caso.
Nella
lassa II e seguenti Marsilio parla ai suoi capi e ammette che dopo sette anni
di guerra cominciano a mancargli i mezzi e si è reso conto che i Saraceni sono
inferiori come forza militare ai Franchi.
Anche
questa è una considerazione che ha conferme nella storia. Quando Carlomagno
passò in Italia per sconfiggere i Longobardi, nel 773, dopo alcuni scontri in
Val d’Aosta e in Piemonte, il re Desiderio si ritirò in grave difficoltà a
Pavia, da dove negoziò la resa, in seguito ad aver sperimentato la superiorità
della cavalleria franca che utilizzava la tattica della carica in ranghi
compatti e lancia spianata, che i Longobardi non conoscevano.
Risponde
al re Marsilio il saggio Biancandrino che propone una via d’uscita onorevole
per lui: mandare tesori tali che Carlo possa rispettare le retribuzioni dei
suoi soldati, cosicché il re dei Franchi decida di por fine alla guerra, dura e
lunga per tutti, e se ne torni in Francia. La promessa è che Marsilio entro un
mese lo raggiunga a Aquisgrana e che si farà cristiano e vassallo di Carlo.
L’ultimo verso della VII lassa ci anticipa che dietro la proposta degli
ambasciatori saraceni si nasconde un tranello, ma in effetti essa appare una
proposta sensata per cessare le ostilità. Infatti Carlomagno sarà molto in dubbio
se accettarla o no.
Qui
vale la pena di aprire una digressione. Possiamo domandarci: è sensato che
Marsilio, facendo sua la proposta di Biancandrino, mandi degli ambasciatori
ufficiali promettendo a Carlo di farsi cristiano?
Se
la valutazione è strettamente religiosa la risposta è no. E però Carlo la
considererà molto seriamente e l’accetterà. Ora noi oggi abbiamo molta
difficoltà a pensare a un’apostasia di Marsilio. E non voglio dire solo che i
musulmani di oggi siano diversi da quelli di allora.
Si
dimentica che, sebbene la religione islamica prenda le componenti teologiche,
pochissime in assoluto per la verità, dal Cristianesimo, soprattutto dai
vangeli apocrifi, riceve la natura di patto religioso solo dalla Bibbia. Da lì
viene l’ineluttabilità e irreversibilità della conversione e la condanna
mortale per gli apostati.
Se
volessimo sintetizzare che cosa sia la Bibbia, nel suo senso vero e originale,
dovremmo dire che è il racconto di un patto di alleanza fra gli Israeliti e il
Dio chiamato Yahweh. E il rispetto del patto, esplicato nelle numerose
disposizioni di legge che Yahweh ha emanato, è il solo modo di essere fedeli
all’alleanza.
Nel
racconto biblico a Yahweh non interessa molto, in realtà, di ciò che fanno o
non fanno gli Israeliti, ma molto che rispettino il patto. Quella è la legge e
quella è la ‘fede’. Ciò si ricava anche da come è descritta la conoscenza nei
libri sapienziali: la sapienza o scienza è solo il rispetto dell’accordo
d’alleanza. Per esempio Yahweh lascia fare cose tremende al suo prediletto
Davide, come far uccidere un suo ufficiale solo per poterne sposare la bella
moglie. La conseguenza per Davide è solo che non sarà lui ad avere l’onore di
edificare il tempio. Ma quando lo stesso re Davide decide di far svolgere un
semplice censimento della consistenza militare di Israele, Yahweh si ferma a
stento dall’ucciderlo. La ragione è che una delle cose che spettavano in
esclusiva a Yahweh, secondo il patto stipulato con Mosè, c’era la convocazione
di un censimento militare tre volte all’anno. Non si poteva sgarrare di una
virgola sulle regole del patto, una qualsivoglia.
Mi
dirai: ma che c’entra tutto questo? A parte che dovrebbe essere chiaro, senza
che mi dilunghi, la reale natura della religione islamica, che però non è
argomento di questo scritto, considera che i musulmani hanno un patto
d’alleanza con Allah mentre i cristiani ne hanno uno con un Dio che non si sa
chi sia, perché Gesù agli Ebrei diceva che era Yahweh e ai discepoli che il
Padre non lo conosceva nessuno tranne lui, mentre Yahweh lo avevano visto in
tanti. Aveva un atteggiamento tattico, diciamo, funzionale a ciò che si
prefissava. E che peraltro non è nemmeno chiaro: il fantomatico regno dei
cieli, di cui oltretutto non ha mai mantenuto la promessa soprattutto nei
termini che egli stesso indicò.
Ora
il tema in questione è che entrambe le religioni del poema si basavano e si
basano su un patto con un Dio in nome del quale si vince e si governa. Ma
essendo le due religioni di conversi, a differenza dell’Ebraismo, il problema
dell’apostasia si pone solo quando si esce dall’alleanza ma restando nella
comunità di origine. Se si esce e si passa a un’altra alleanza questo pericolo
non occorre più. Terrorista permettendo...
Dunque
Marsilio sta proponendo a Carlo di essere disposto a uscire dall’alleanza con
Allah, o Maometto, se si vuole e forse meglio, e a entrare in quella che ha
eletto a proprio Dio Gesù. Su queste alleanze, in senso biblico, si fondano
l’autorità di Carlomagno e il suo governo e le conquiste dei Saraceni e il loro
governo. La proposta di Marsilio di divenire cristiano e vassallo di Carlo è
perfettamente plausibile come scambio che permette a Carlo di vincere la guerra
e a Marsilio di mantenere i suoi territori, facendoli passare a un’altra
alleanza da quella originale. Ulteriore conferma è nella lassa successiva in
cui si accenna al fatto che dopo le conquiste gli abitanti o divenivano
cristiani, cioè ‘alleati’ o erano uccisi. I musulmani facevano lo stesso oppure
vendevano i prigionieri come schiavi per finanziarsi le guerre d’espansione.
Nella
lassa X c’è la risposta di Carlo a Biancandrino ambasciatore dopo lunga
riflessione.
« “Parlate bene” ai
messaggeri disse
“ma
il re Marsilio è molto mio nemico.
Alle
parole che avete detto qui
in
che misura conviene che m’affidi?”».
Biancandrino
conferma che il suo re si farà cristiano. Il giorno dopo: “Bello fu il vespro e
il sole fu chiaro”, Carlo convoca l’assemblea dei Pari per decidere.
Nella
lassa XIV Orlando (in francese Rollant) si dice nettamente in disaccordo con la
proposta di Marsilio, che ritiene truffaldina, menziona un inganno del genere
precedente e propende per la
continuazione della guerra fino alla vittoria totale. Ricorda parlando di aver
conquistato per Carlo molte città e castelli.
Orlando
non ha qui ancora acquisito la tipologia del perfetto paladino, ricco di fede,
coraggioso e con un’aria di sfortuna e sventura che gli incombe, verrà perfino
descritto in seguito come strabico e di non bell’aspetto. Qui è ancora il
classico eroe individualista, amante della battaglia in quanto tale e gli
argomenti per essere ascoltato sono gli stessi che nell’Iliade utilizza
Achille.
Nella
vicenda troiana, la questione della bella Briseide è solo un pretesto, la
classica goccia che fa traboccare il vaso troppo pieno delle irregolarità di
Agamennone. Achille ricorda di aver conquistato e predato molti centri sulla
costa e isole e alla fine di aver rimesso tutto nelle mani di Agamennone il
quale però è stato assai di parte nel fare le divisioni del bottino. La
strategia dei Greci all’assedio di Ilio consisteva nella presa d’atto che la
città non poteva essere stretta nella parte posteriore a causa delle montagne e
delle numerose popolazioni amiche e che da lì poteva avere un rifornimento
continuo e reggere l’assedio di fatto all’infinito. Dunque l’unico modo per
indebolirla era quello di colpirla sui centri della costa e nei suoi commerci.
Achille
lamenta di tornare al campo addirittura nauseato dal sangue e dalla violenza
che ha sparso e di essere così apertamente ricambiato in modo non equo. Mette
in discussione l’autorità stessa di Agamennone.
Orlando,
naturalmente, non può rivolgersi con quel tono al suo sire, ma il parallelismo
è evidente.
La
voglia di finire quella lunga e spossante guerra è forte e alla fine, dopo gli
interventi di Gano e di Namo, Carlo decide per accettare e inviare
un’ambasceria a Marsilio.
Nella
lassa XVII Carlo chiede chi dovrà andare a riportare la risposta a Marsilio.
Si
offrono Namo, Orlando e il vescovo Turpino, ma Carlo rifiuta. Qui a sorpresa
Orlando indica che vada il suo patrigno Gano. Siamo nella lassa XX e il fatto è
di difficile interpretazione. In tutto il poema si sottintende che i rapporti
non siano buoni fra Orlando e Gano, ma non è detto in modo chiaro, forse la
storia era data come risaputa.
«Disse re Carlo “
Cavalieri di Francia,
del
mio paese un barone indicatemi
che
rechi al re Marsilio il mio messaggio”.
Orlando
disse: “Il mio patrigno Gano”».
Orlando
è suo figliastro, e si potrebbe pensare a motivazioni psicologiche, anche perché
non è chiara la vera paternità di Orlando (forse è un figlio incestuoso di
Carlo). Gano non è il traditore per antonomasia che sarà dopo, è un barone
bello e coraggioso, la sua reazione potrebbe essere dovuta al comportamento
provocatorio di Orlando, la cui imprudenza è tratto peculiare del suo
carattere.
Risponde
Gano:
«“...ma se di là Dio mi
farà tornare
Ti farò sempre
un così gran contrasto
che durerà per
quanto tu vivrai”.
“Follia e
orgoglio! Qui gli risponde Orlando».
E
nella lassa successiva (XXI):
«“...
Né tu vassallo mi sei, né io tuo sire
Carlo comanda che io vada a servirlo
Ma io farò certo qualche follia
Prima di porre fine alla mia grand’ira”
Quando l’udì, si mise Orlando a
ridere».
Ancora
Gano a Orlando (XXII):
«... Al conte dice: “Io
non v’amo per niente:
Avete fatto una maligna
scelta».
Durante
il viaggio di ritorno al capo dei Saraceni, Gano e Biancandrino si accordano
per l’inganno.
Biancandrino
ritiene i baroni Franchi responsabili della lunga durata della guerra, per
sfrenato amore di conquista.
« Gano risponde: “ D’uomini
tali io so
soltanto Orlando, che un dì ne avrà vergogna.
...
Dovrebbe certo rovinarlo l’orgoglio
perché ogni giorno alla morte si espone.
Se alcun l’uccide, avremo pace dopo”».
La
risposta di Carlo ripropone i termini dell’offerta di Marsilio, ma Gano fa
apparire la forma, più che un accordo, come una minaccia, insinuando che dei
territori la metà restino a Marsilio e l’altra divengano feudi di Orlando.
Marsilio vorrebbe uccidere Gano ma Biancandrino rivela l’accordo fra lui e il
barone franco.
Nelle
lasse XL e XLI c’è un colloquio fra Marsilio e Gano, ormai parte diligente nel
tradimento. Marsilio fa riferimento due volte all’età avanzata di Carlomagno: “
Ha passato i duecent’anni ” e poi “ Per quanto io sappia, ha duecent’anni e
meglio. ... Quando sarà stanco di far guerra?”.
La
risposta di Gano è senza repliche: “Mai” disse “finché il nipote è in piedi!”.
Il nipote è ovviamente Orlando.
Va
detta una cosa su questa irreale età di Carlomagno. Piuttosto che intenderla
come un’anacronistica enfasi della vecchiezza del sovrano, proviamo a pensare
quanti anni sono passati dai fatti d’arme e dall’incoronazione di Carlo a
Imperatore, il giorno di Natale dell’anno 800, al momento in cui questo poema è
stato scritto: duecentocinquanta per fare cifra tonda. Ossia sono due secoli e mezzo
che in Europa esiste il sistema feudale. Vale a dire che Carlo è ancora
presente con la sua creazione quando si narrano le sue gesta, la sua presenza è
attualizzata dalla sua venerandissima età. Quella che avrebbe se fosse ancora
vivo, ed egli era ancora vivo nel sistema che regolava la politica dell’Europa.
Il
piano di Gano è questo. Marsilio accetterà la proposta di Carlo gli invierà le
ricchezze pattuite e gli ostaggi di
garanzia. Carlo abbandonerà la Spagna e lascerà una retroguardia. Gano
promette, ne è sicuro, che a comandarla sarà Orlando, insieme al suo fido
cugino Oliviero e ad altri Pari, e avrà la consistenza di ventimila cavalieri
scelti. Quando Carlomagno sarà ai valichi di Cisa (Roncisvalle), Marsilio coi
suoi attaccherà la retroguardia ferma a controllare la situazione. I Saraceni
avranno da soffrire, ma la morte di Orlando è certa.
Nella
lassa XLV: «“Se alcun potesse a
Orlando dar la morte,
farebbe
Carlo del braccio destro tronco,
si fermerebbero le truppe prodigiose,
non riunirebbe più Carlo sì gran forze”».
Con
doni da parte dei più nobili dei Saraceni si sancisce l’accordo per
l’imboscata. Fra chi porta doni v’è anche la bellissima moglie di Marsilio,
Bramimonda.
Al
ritorno al campo di Carlo, Gano aggiunge che i temuti aiuti per mare dell’Emiro,
che Marsilio si aspetta, non verranno perché egli con la sua flotta ha fatto
naufragio. La cosa non è vera e Carlo se ne accorgerà dopo.
Carlo
raduna tutte le salmerie e parte deciso verso casa. Ma... si fa così una
ritirata? Qualunque militare vi direbbe di no. Ci si allontana a gruppi e uno
si attesta e l’altro ripiega, senza fretta e senza allungare i reparti. E
allora? Carlo non lo sapeva? Ma come dice la lassa LV i Francesi alzano il
vessillo al campo. È evidente che la retroguardia deve sì controllare le spalle
del grosso dell’armata ma soprattutto deve svolgere un ruolo di ambasciata coi
Saraceni per confermare gli accordi.
“Passa
la notte e appare l’alba chiara” (lassa LVIII).
Carlo
deve scegliere chi comanderà la retroguardia, Gano suggerisce il miglior
barone: Orlando, suo figlioccio.
«Il conte Orlando, che
scegliere s’intese,
allor parlò da vero cavaliere:
“Signor patrigno, caro vi debbo avere:
la retroguardia avete per me scelta!”».
Orlando
sale a cavallo e gli altri pari fanno a gara per seguirlo nella pericolosa
missione. Con loro avranno solo ventimila cavalieri (‘solo’ rispetto
all’iperbole sul numero dei guerrieri coinvolti nella guerra che è modo tradizionale
di questo tipo di poemi).
Non
appena Marsilio vede che Carlo ha scollinato, raduna dalla Spagna
quattrocentomila uomini e si appresta ad attaccare. Tutti i migliori campioni
dei Saraceni promettono che saranno loro a uccidere Orlando. E si armano.
Lassa
LXXIX.
«Chiaro fu il giorno e il
sole fu bello.
Non
v’è armatura che tutta non fiammeggi.
Suonano
mille trombe, perché sia meglio».
Oliviero
se ne accorge e avvisa Orlando che animosamente spera di venire a combattere
coi saraceni: “Paien unt tort e chrestiens unt dreit!”. I pagani hanno torto e
i cristiani han ragione.
E
qui tutta la solita tiritera sulla semplicità e integralismo del pensiero
religioso. Ma Orlando non fa altro che sottolineare che gli attaccanti, coloro
che hanno occupato terre europee e che si espandono con pericolo, sono i
Saraceni. Ciò che hanno i cristiani, intesi come Europei, è il diritto di
riprendersi le loro terre, che un tempo erano cristiane. È l’affermazione di un
diritto giuridico contro quello di conquista.
Nella
lassa LXXX Oliviero sale su una collina e vede la gran turba di saraceni
avvicinarsi:
«“Gano doveva saperlo il
traditore,
che fece il nostro nome all’imperatore”.
“Taci Oliviero” Orlando gli risponde,
“è mio patrigno: non farne più parola”».
Nella
lassa LXXXIII Oliviero chiede a Orlando di suonare il corno in modo che Carlo
sentendolo ritorni in soccorso. Ma senti cosa...
«Risponde Orlando: “Sarebbe
agir da folle!
Nella mia Francia io perderei il mio nome”».
Nella
lassa successiva Oliviero lo scongiura di suonare l’olifante.
«Risponde Orlando: “A
Domineddio non piaccia
che i miei parenti sian per me biasimati
e disonore ne abbia la dolce Francia!”».
Perché
Orlando è così ostinato. Oliviero ha chiaramente ragione: il pericolo incombe.
È solo perché Orlando è un audace incline all’imprudenza ed è anche un po’
esaltato e tendente ad andare fuori di testa, come poi la tradizione lo
dipingerà? Forse.
Ma
il suo compito, quello che Carlo gli ha affidato, non è una missione suicida,
anche se lo può diventare. Egli deve controllare e riferire che i Saraceni
stanno tornando nelle terre conquistate, ma il loro atteggiamento deve essere
pacifico e mostrare il rispetto dei patti. Qui non c’è nessun trattato da
rispettare, nessun congresso ha portato a una risoluzione. C’è solo la parola
di due re.
Che
i Saraceni vengano verso di loro è perfettamente normale: stanno tornando nelle
loro città. Suonare l’olifante sarebbe un atto che romperebbe la reciproca
fiducia del patto e a quel punto i Saraceni avrebbero motivo di attaccarli, e
la responsabilità sarebbe di Orlando e le conseguenze si estenderebbero anche
alla sua famiglia e alla sua gente. Egli può solo aspettare, e solo quando i
Saraceni gli muoveranno battaglia, tirare la conclusione che tutto è stato un inganno
e che Gano ha tradito. Non è stolto, sospetta anche lui, ma in una società dove
tutto dipende dall’essere un vassallo, cioè ‘uomo di un uomo’ e averne la completa
fiducia e mettere la propria vita per servire il proprio sire, non si può
rischiare di far fallire un accordo per paura di uno scontro.
Nella
lassa XC Orlando ormai vede che l’attacco sta avvenendo, non ci son più dubbi.
Solo allora si volge gentile a Oliviero
«“Sire compagno, lo
sapevate bene
che il conte Gano ci ha fatto tradimento.
...
Il re Marsilio ci ha preso come merce,
ma con le spade pagare ben ci deve’”.
La
battaglia a questo punto divampa e:
« La giovinezza perdon tanti Francesi,
che madri e mogli non potran
rivedere»
(lassa CIX).
Si
confrontano in migliori campioni dell’una e dell’altra parte, ma l’esercito di
Marsilio è infinito: “Sull’erba verde il chiaro sangue fila” (CXXV).
Sembra
invano che i Franchi possano farcela a respingere i nemici:
«I morti possono
calcolarsi davvero,
come sta scritto nelle carte e nei brevi,
a quattromila e più, dice la Gesta.
Per quattro assalti è andata loro bene,
ma il quinto assalto è una dura faccenda.
Muoiono tutti i guerrieri francesi,
meno sessanta, che Dio ha lasciati in piedi».
(lassa
CXXVI).
Nasce
una contesa fra Orlando che ora vuol suonare l’olifante e Oliviero che lo rimprovera
di non averlo fatto quando lui lo chiese ed erano ancora in tempo, e gli nega
che sua sorella Alda, la Bella, sarà mai la sposa di Orlando. Discutono come se
avessero ancora un futuro. L’arcivescovo Turpino interviene a pacificare gli
amici. Ormai il corno non servirà più a salvarli ma, richiamando Carlo, egli il
re, farà la loro vendetta.
Lassa
CXXXIII: «Il conte Orlando con
pena e con affanno,
con gran dolore
or suona l’olifante.
Fuor della bocca
gli sgorga il sangue chiaro
e al suo cervello
la tempia ecco si schianta».
Nonostante
Gano cerchi di far credere che Orlando suoni per farsi baldo coi suoi, Carlo dà
l’ordine di armarsi e tornare indietro e fa arrestare Gano.
La
lassa CXXXIX recita:
«Orlando guarda verso i
monti e i picchi
Vede giacere tanti francesi uccisi,
e allor piange da cavalier gentile:
“V’abbia pietà, signori baroni, Dio!
Alle vostre anime conceda il Paradiso,
perché a giacere fra i santi fiori stiano!
Di voi vassalli migliori mai non vidi:
per tanto tempo voi m’avete servito
...
Terra di Francia, dolce paese, qui
fatta deserta da sì aspra rovina!
Baroni franchi, so che per me morite,
né a me difendervi o salvarvi è possibile:
v ’aiuti Dio, che non ha mai mentito!
Non v’abbandono, Oliviero, fratello mio!
Morrò di pena se nient’altro m’uccide.
Sire compagno, ritorniamo a colpire!”».
Orlando
va contro il re Marsilio e con un colpo di Durendala (è la variante di questo
poema del nome della spada di Orlando) gli tronca il polso destro e lo
costringe ad abbandonare il campo di battaglia. Centomila saraceni lo seguono,
ma in battaglia resta suo zio, Il Califfo, coi suoi cinquantamila. Orlando capisce che la morte è
a un dipresso.
Oliviero
è ferito a morte ma continua a combattere, poi chiama Orlando vicino a sé
gridando ‘Munjoie!’: l’impresa di re Carlo. Il loro ultimo dialogo è troppo
straziante perché lo si possa riassumere. Quando Oliviero muore la lassa CL
canta:
«“Sire compagno, fu mal
che foste ardito!
Per
anni e giorni noi siamo stati uniti:
mai ci
facemmo male né tu né io.
Or che sei
morto, m’è gran dolore il vivere!”».
Cade
Turpino, colto da quattro lance, ma si rialza e continua a combattere. Orlando
combatte in deliquio fino allo sfinimento “senza vigore dà fiato all’olifante”.
(CLV)
Carlo
risponde con le sue trombe e i pagani esclamano (CLVI):
«“Se Carlo viene, noi
avremo gran perdita.
Se
vive Orlando, si rinnova la guerra
ed è
perduta per noi la nostra terra!”.
I
Saraceni uccidono Vegliantivo, il destriero di Orlando. Ma la resistenza di
Orlando li mette in fuga. Egli vaga sul campo di battaglia e vede tutti i suoi amici e i baroni morti.
Sviene dal dolore, Turpino va a prendere dell’acqua nell’olifante.
Lassa
CLXIV:
«Un corso d’acqua si
trova a Roncisvalle:
vi
volle andare per portarne a Orlando.
Vi
s’avviò con passo vacillante:
è così
debole che più non può durare:
non ha
più forza, ha perso troppo sangue».
E
muore.
Orlando
vuole spezzare la sua spada contro una roccia perché non sia preda dei nemici.
«“ Ah Durendala, aveste
assai sfortuna!
Ora che muoio, di voi non avrò cura”».
(CLXX)
Ma
non riesce a spezzarla:
«“Ah! Durendala, come sei
chiara e bianca!
Quanto risplendi contro il sole e divampi!”».
(CLXXI)
«“Ah! Durendala, come sei
sacra e fine!”».
(CLXXII)
La
lassa CLXXIII canta la morte di Roland:
«Orlando sente che la
morte lo prende,
che dalla testa sopra il cuore gli scende.
Se ne va subito sotto un pino correndo
e qui si corica, steso sull’erba verde:
sotto la spada l’olifante mette;
verso i pagani poi rivolge la testa
e questo fa perché vuole davvero
che dica Carlo, con tutta la sua gente,
che il nobil conte è perito vincendo».
Torna
Carlo sul luogo della battaglia cosparso di cadaveri. Vede che i Saraceni
stanno fuggendo e li insegue. In parte li massacra in parte annegano nell’Ebro.
Il re Marsilio ferito gravemente spera ancora nell’aiuto di un Emiro che a
Alessandria d’Egitto ha raccolto una nuova armata e:
«Ed ecco in maggio, al
primo dì d’estate,
tutti i suoi eserciti avventa sopra il mare».
(CLXXXVIII)
Giungono
mentre Marsilio è in punto di morte e subito si mettono in cerca di Carlo. Egli
nel frattempo ritrova il nipote Orlando e tutti i suoi pari caduti a
Roncisvalle.
Lassa
CCVII: «“ Amico Orlando, tornerò
nella Francia
...
verran vassalli stranieri da più parti.
Domanderanno: ‘E il conte capitano?’.
Io dirò loro ch’è morto nella Spagna!”.
Dalla
lassa CCXIII si narra della grande battaglia conclusiva fra l’esercito di
Carlomagno e quello dei pagani. Si riepilogano le colonne di cavalieri di Carlo.
In ordine di marcia sono: Franchi, Bavaresi, Alemanni, Normanni, Bretoni,
Pittavini (Poitiers), Fiamminghi, Lorenesi e Borgognotti.
La
battaglia è vinta da Carlo e dai Franchi che sullo slancio conquistano
Saragozza. Le moschee sono distrutte, e
anche le sinagoghe (ricordi il discorso della religione come patto d’alleanza?)
tutti sono battezzati, cioè inseriti nel nuovo patto, chi si rifiuta è ucciso.
Sono prigionieri di guerra, su di loro Carlo ha diritto di vita e morte:
l’unica via di salvezza è la conversione alla nuova alleanza.
Tutti
tranne... Bramimonda, la bellissima moglie di re Marsilio.
Lassa
CCLXV:
«Se ne battezzano più
assai di centomila,
veri cristiani; però non la regina,
che condurranno in Francia in prigionia:
il re la vuole per amor convertire».
Il poema si conclude col processo a Gano una
volta giunti a Aquisgrana. Nella lassa CCLXVII alla notizia della morte di
Orlando, Alda muore subitamente.
Nella
lassa CCLXX si dice:
«Scritto così v’è
nell’antica Gesta:
che Carlo chiama vassalli di più terre.
Ad Aquisgrana son tutti alla cappella.
Fu un grande giorno, fu una festa solenne,
dicono alcuni del prode San Silvestro.
Così comincia la storia del processo
del conte Gano, che fece il tradimento.
Lo fa il sovrano condurre al suo cospetto».
Brutto
veglione per il traditore... Alle accuse contro di lui mosse, Gano si difende
asserendo che è vero che ordì la congiura contro Orlando, ma:
«Rispose Gano: “Fellone s’io lo nego!
Mi fece torto Orlando nei miei beni
e io ne volli la morte e il tormento,
ma nego affatto che vi sia il tradimento”».
(CCLXXXI)
Fra
i parenti di Gano c’è Pinabello che promette a Gano di sfidare chi dei baroni
lo voglia morto. La giuria alla fine tenderebbe al perdono di Gano che ha
promesso la fedeltà, mai venuta meno, al re Carlone. Ma il sovrano rigetta
questa soluzione e si addolora molto in ricordo di Orlando. Un cavaliere di
nome Teodorico (Tierris in francese) si propone di sfidare un parente di Gano e
propone al re, per dirimere la differenza d’opinione fra quella dei giurati e
la sua, di sfidare un parente di Gano, in vece di Carlo stesso che ovviamente
non può svolgere quel ruolo per età ma soprattutto per il rango. Concedendo
così a Gano una sorta di ordalia. Dice Tierris nella lassa CCLXXVI:
«“Gano è fellone per aver
tradito:
di fronte a voi è spergiuro e malfido.
Penso che debba impiccato morire.
...
S’egli ha un parente che mi voglia smentire,
con questa spada che mi vedete cinta
voglio difendere subito il mio giudizio”.
Avviene
lo scontro fra i due campioni e anche se Pinabello cerca di corrompere Tierris
affinché sospinga la pace fra Gano e Carlo, alla fine soccombe.
Gano
è giustiziato squartato da quattro cavalli e i suoi trenta parenti sono
impiccati.
Sul
perché siano uccisi anche tutti i parenti si può avanzare una circostanza.
Quando il poema fu scritto era già stata emanata dall’Imperatore Enrico III la
“Constitutio de feudis” del 1037, con la quale si sanciva il perenne diritto
ereditario sulle cariche imperiali, oltreché l’infeudamento delle pievi. Fu una
rivoluzione totale: da lì discese l’ereditarietà dei titoli nobiliari
dell’aristocrazia successiva, e anche attuale laddove sussista una monarchia, e
i grandi patrimoni ecclesiastici dei conventi. Ma al tempo dei fatti, VIII
secolo, il diritto feudale prevedeva che tutto l’esistente appartenesse
all’imperatore, che ne concedeva in misura e volontà proprie. Quindi una volta
morto un vassallo tutto il feudo tornava, almeno formalmente, nelle mani del
sovrano, che avrebbe anche potuto darlo a un altro senza nessuna spiegazione. A
quale delle due giurisprudenze si rifaceva l’autore del poema? Poiché, o i
parenti di Gano sono complici nel tradimento, dunque i fatti di Gano sono solo
l’apice di una congiura di stato contro il re, oppure quei trenta dovevano,
loro malgrado, essere visti come una minaccia per il sovrano.
Il
poema si chiude con la conversione di Bramimonda che col battesimo prende il
nome di Giuliana.
La
lassa CCXC conclude dicendo: “Passato è il giorno, la notte s’è incupita...” il
re fa per dormire ma l’angelo Gabriele gli ordina di radunare l’esercito perché
deve andare a Bira, per dare aiuto al sovrano di Infa dove i Saraceni han posto
un assedio.
Carlomagno
esclama sconsolato “Dio, quanto è penosa la mia vita!”.
Così
ho vissuto questo capolavoro assoluto e così te l’ho raccontato come lo vedessi
sulla vetrata di una cattedrale.
Ringraziando
il cielo sono un poeta ma non un letterato.