Vi
devo confessare una cosa. Cambio il desktop ogni mese, o meglio ogni segno
zodiacale. Testimone del mutarsi delle stagioni è una bella donna, di quel
segno ovviamente. I requisiti per entrare nella mia compilation sono solo due
(oltre al fatto di far parte del sesso femminile ed essere di gradevole
aspetto): essere del segno in corso e starmi simpatiche, se sono belle è
meglio. In genere metto delle attrici, perché sono stato a lungo un appassionato
di cinema, quando era ancora vivo, poi non essendo un necrofilo ho lasciato
perdere. In altri casi sono state cantanti o artiste in genere. Ad alcune ho
dedicato una poesia.
Il
segno appena passato è la Bilancia. Sul mio desktop, ogni volta che aprivo il
computer mi appariva il bel volto di una venticinquenne Marina Cveateva.
L’ho
un po’ elaborato dalla foto originale perché non volevo un desktop in bianco e
nero e in una immagine così scura
ed
è venuta straordinariamente simile a un altro mito del cinema e anche mio:
l’amabile Setsuko Hara, così come campeggia nella vetrina del fotografo,
avvolta dalla neve di Hokkaido, ne “ L’idiota ” di Akira Kurosawa, del 1951,
tratto dal romanzo omonimo di Dostojievski.
Setsuko
Hara mi ha deliziato col suo profilo per tutto il segno dei Gemelli del 2014.
Ora
entro nel vivo dell’argomento di questo post.
Preliminarmente
vorrei dire che ritengo molto più ragionevole la traslitterazione anglosassone
dal cirillico russo in Tsvetaeva, ma il mio parere non conta nulla.
A
Marina Ivanovna Cvetaeva ho dedicato questa poesia nella raccolta " Epea Pteroenta ”.
La poesia deve parlare di sole,
cuori, fiori e amori,
mari, onde e vele.
“ Ma noi dobbiamo vivere
il nostro tempo!
Mostrarne i misfatti,
prendere parte e campo!
”.
Va bene, ma perché
citando nomi,
rovine di memorie,
città, date e poemi?
Una strada, un momento
di luci,
canta ‘ ponti e barriere
’,
‘ i luoghi più semplici
’.
Sei morta più giovane,
Marina,
mandami pure al diavolo
ma ascoltami, Ivanovna,
sono parole tue, è la
tua lezione,
è come il tuo riso in
faccia ai passanti.
(schema:
esametro Aba Cdc Efe Ghg Ili MN)
Marina
Ivanovna Cvetaeva nacque a Mosca il giorno 8 di ottobre del 1892 (Bilancia
appunto) e morì suicida il 31 agosto del 1941 a quarantanove anni.
Quello
che dico nella poesia è ciò che penso dei versi che amo di più di Marina.
Anche
qui il mio omaggio vuole esaltare la versificazione più immediata e
apparentemente spontanea di Marina, quella che francescanamente si definirebbe
‘ semplice ’.
La
chiamo Marina perché amo le donne dei miei desktop ed, essendo morta, ella è
entrata nell’immortale mondo dei miei miti e dei miei sentimenti. E mi posso
prendere delle affettuose confidenze.
Nella
poesia ci sono delle citazioni di stilemi di Marina che lascio a voi di ritrovare
nei versi che riporterò.
Faccio
notare che Cvetaeva scriveva in versi rimati, come facilmente potete trovare
nei siti che hanno il testo in russo a fronte. Lo so: sto diventando noioso con
questa storia della metrica, ma per me è importante perché la poesia sia
poesia.
Vi
voglio solo citare dei versi che per me rappresentano l’idea della poetica di
Cvetaeva così come io la percepisco, tenendo ovviamente presente che nella vita
di un autore ci sono tanti momenti e derive esistenziali che poi incidono
fatalmente sulla sua maturazione d’artista.
Io
non riesco a fare un discorso formale in letteratura: mi girano subito i
coglioni. Non so, mi mancheranno le basi, ma ho un approccio sentimentale alla
poesia. La poesia per me è una donna di cui ci s’innamora perché è diversa
dalle altre.
È
meglio se vi dico i versi e vi spiego perché mi piacciono.
Voglio
mettere solo quei versi che mi rapiscono e non tutta la poesia, che del resto è
facile reperire in rete o nei libri.
Mi
avvalgo del volume: Marina I. Cvetaeva, “
Poesie ”, edizioni Feltrinelli, 4° ristampa 2007, traduzione di Pietro A.
Zveteremich.
Voi
sapete che Cvetaeva fu una poetessa assai precoce: e le sue prime poesie sono
del 1910. Questi versi sono del maggio 1913.
“
Ai miei versi scritti così presto,
che
nemmeno sapevo d’esser poeta,
scaturiti
come zampilli di fontana,
come
scintille dai razzi. ”.
Qui
mi piace il paradosso di descrivere i suoi versi come spontanei, ma di usare
due immagini di meccanismi artificiali, che appaiono però subito come naturali.
Devo dire che quando nel film di Kurosawa viene la scena della pattinata sul
ghiaccio, in maschera e con i fuochi artificiali, ho subito pensato a questi
versi.
Dal
ciclo Insonnia dei versi del 17
luglio del 1916 a Mosca:
“
Di luglio il vento mi spazza la strada,
e
c’è musica a una finestra – appena.
Ah,
soffi ora il vento fino all’alba
oltre
le pareti sottili del petto – dentro. ”.
Mi
richiama la sensazione di una notte estiva, nella quale dopo la calura del
giorno, guardando il cielo nero e alfine rinfrescati dall’aria, che finalmente
si alza, si sente una partecipazione al respiro cosmico.
Questa
poesia del 1918 la metto tutta poiché è una specie di manifesto di quello che
per me è la poetica di Cvetaeva.
“
La spensieratezza è un caro peccato,
caro
compagno di strada e nemico mio caro!
Tu
negli occhi m’hai spruzzato il riso
e
la mazurca m’hai spruzzato nelle vene.
Poiché
m’hai insegnato a non serbare l’anello,
con
chiunque la vita mi sposasse.
A
cominciare alla ventura – dalla fine,
e
a finire – ancor prima di cominciare.
A
essere come uno stelo, ed essere come l’acciaio.
Nella
vita, in cui così poco possiamo,
a
curare la tristezza con la cioccolata
e
a ridere in faccia ai passanti. ”.
Si
possono trovare versi così femminili? Io mi immagino, non so perché, Marina
seduta ai tavolini fuori da un caffè che beve la cioccolata con le sue amiche,
e ridono di una felicità senza motivo, loro connaturata. Forse perché mi dà
fastidio pensarla brufolosa di cioccolato in tavolette in quantità industriali
e in crisi da mestruazioni. E poi rimando alla mia poesia. È la stessa Marina
del mio desktop: ventisei anni.
Tratti
dal ciclo Versi per la figlia gli
ultimi tre versi di un componimento in cui traspare la complicità fatta di un
destino comune fra Marina e la figlia Alja, del 24 agosto del 1918.
“
Una volta mi hai detto: ‘ Compramele! ’
con
un brillar d’occhi alle torri del Cremlino.
Il
Cremlino è tuo dalla nascita. Dormi,
mia
primogenita chiara e terribile. ”.
Quanta
verità! Riflettiamo che i monumenti del nostro paese, della nostra città sono
nostri, sono l’aspetto artistico della nostra interiorità, dell’eredità di chi
quel paese ha costruito. Sono ciò di cui siamo fatti. Nei “ Sette samurai ”,
sempre di Kurosawa, a un certo punto Kikuchyu (Toshiro Mifune) salva da un
incendio un bambino e resta inebetito tenendolo in braccio, quando gli chiedono
perché del suo atteggiamento risponde: “ Questo sono io! È quello che è
successo a me! ”. Svela d’essere un contadino che decise di farsi passare per
bushi per combattere le ingiustizie contro il popolo. I nostri monumenti, le
opere di qualunque arte del nostro passato di popolo e nazione sono quel
bambino, siamo noi, è quello che è successo a noi.
Da
Alba sulle rotaie del 12 ottobre
1922.
“
La nebbia ancora ci risparmia,
ancora
avviluppato nei teloni
dorme
il granito dei carri merci,
non
si vede la scacchiera dei campi... ”.
In
questa stanza si sviluppa una certa straniazione dalla realtà, che non esiste finché
non ne facciamo parte, lanciando l’esca della nebbia, evidente motivo di
straniazione, ma in verità facendoci sentire l’immobilità di quello che un
momento dopo sarà una febbrile, consueta, attività.
Il
Poema della barriera del 23 aprile
1923.
“
Ma fino a quando il deserto della gloria
non
avrà tappato le mie labbra,
io
canterò i ponti e le barriere,
io
canterò i posti più semplici.
Ma
fino a quando nelle reti
Non
mi sono impigliata – delle tortuosità della gente,
io
prenderò – la nota più difficile,
io
canterò – l’ultima vita!
Il
lamento delle ciminiere.
Il
paradiso degli orti.
...
Et
cetera... ”.
I
luoghi della vita, i posti dove succede tutto, dove è la storia senza nomi e
date. Rimando alla mia piccola composizione. Sono sicuro che Marina lo
permette, senz’altro ridendo ma lo permetterà. E mi perdonerà.
Da
Rotaie del 10 luglio del 1923.
“
In una certa rigatura da note
Poltrendo
a somiglianza di lenzuola –
I
terrapieni della ferrovia,
la
tagliente azzurrità delle rotaie!
...
Spanditi
come inutile aurora,
rossa
inutile macchia!
...Le
giovani donne talvolta
Sono
allettate da questi terrapieni. ”.
" Il crepuscolo di Tokyo " di Yasujiro Ozu, 1957, Ineko Arima
Da
I lettori di giornali, scritto a
Parigi il 24 agosto del 1936.
“
...
Lascia stare, ragazza!
Metterai
al mondo
un
lettore di giornali.
...
Che
sono per questi signori
il
tramonto oppure l’alba?
Divoratori
di vuoto,
lettori
di giornali!
...
Chi
i nostri figli
fa
marcire nel fiore degli anni?
I
miscelatori di sangue,
gli
scrittori di giornali! ”.
Sono
passati ottant’anni? Questi anni sono tragicamente simili a quelli, con in più
l’aggravante del suffisso tele-. Il corsivo è dell’autrice.
Versi
datati 11 settembre 1936.
“
Finalmente ho incontrato
chi
è necessario – per me:
chi
inoltre ha una mortale
necessità
- di me.
Ciò
ch’è per l‘occhio l’arcobaleno,
per
le erbe – la terra nera,
per
l’uomo è la necessità
d’un
essere umano - in lui.
Per
me della pioggia e dell’arcobaleno
e
della mano – più necessaria
l’umana
necessità
di
mani – nella mia mano. ”.
Concludo
con questi versi che sento molto vicini perché parlano con la dovuta ambiguità
di una presenza dentro e fuori di sé. Quando qualche imbecille mi prende per avvinazzato,
se nelle mie composizioni parlo di ‘ ebbrezza ’, così , come ho già avuto modo
di dire, se parlo di una donna non è detto che sia in carne e ossa. Forse è un
essere che mi abita, forse mi riferisco a una categoria evolutiva superiore,
immaginata in una donna. Qui Marina lavora all’uncinetto: dentro e fuori
definizioni che riportano, le une alle altre, a una presenza angelica di sé
stessi, forse a qualcuno di esterno che vogliamo dentro di noi, forse a noi come
un ricettacolo di chi può vivere solo nella nostra interiorità. Ma una cosa non
esclude l’altra: il calore fisico delle mani degli altri è reale in questi
versi, ma altrettanto lo è questa presenza intima scoperta all’improvviso.
Parlando
della amata Marina Ivanovna volevo mostrare come vivo la poesia, come mi sembra
giusto perché, ogni volta che si rilegga, sia sempre una ninfa di acqua sorgiva
e riesca a smuovere quello che di nobile e vitale c’è in tutti noi.
E
quanti versi ho dimenticato!