È
un blog di poesia e non parla mai di poesia... Ma secondo voi, con tutto quello
che succede al mondo (ve ne accorgete, o voi siete artisti?) c’è da perdere
tempo con la poesia? Io con la poesia mi diverto, mi anticipo fette di paradiso
abbinandola al buon cibo, al vino e alla musica. Ci faccio all’amore per
scordare tutto, ma se devo scrivere qualcosa che mi urge non parlo di poesia.
Perchè la poesia non è diversa da qualunque altra cosa al mondo: è il superfluo
che dà senso a una vita che altrimenti non ne avrebbe.
Allora
parliamo di cultura, anzi parlo di cultura tanto a chi interessa quello che ho
da dire?
Quando
ero piccolo passavo i pomeriggi a leggere l’enciclopedia. Quando lo dicevo agli
amici mi ridevano in faccia. E avevano ragione. Perdevo tempo cercando di
sapere qualche cosa di tutto invece di leggere quelle cose che, una volta
lette, ti fanno entrare di diritto nel mondo di coloro che sono colti.
Alt!
Istruito, colto, erudito... In quegli anni di storming ormonale cominciavo a
chiedermi che differenza ci fosse fra una persona istruita, una colta e una
erudita.
Una
persona istruita è uno che sa leggere, scrivere, far di conto e capire il testo
di una norma o di una regola, anche se qui spesso ci vuole una dose di innata
veggenza. Insomma, un uomo istruito, anche una donna è ovvio anche se
quest’ultima ha forse solo una chance in più di riuscire a sposarsi bene, è chi
riesce a vivere capendo quello che è necessario per la vita sociale e per non
far la figura dell’ignorante. E non è poco badate.
Oggi
c’è chi dichiara di non avere alcun interesse a sapere se il Senato della
Repubblica è di elezione popolare o di nomina, oppure c’è chi confonde i Capi
di Stato con i Capi di Governo. Che in Italia, almeno secondo la Costituzione
che conosco, si chiama Presidente del Consiglio dei Ministri a indicare il suo
ruolo di primus inter pares. D’altra parte l’ultimo Presidente della Repubblica
ha costituito dei “ precedenti ” anche se non mi risulta che nella Repubblica
Italiana gli atti del Presidente della Repubblica costituiscano una
giurisprudenza. Siamo una Repubblica Parlamentare, almeno se non mi sono perso
una puntata...
Troppo
difficile? Ma sì dai, passiamo alla cultura che è più easy.
Appena
un po’ più grandicello decisi, dopo aver consumato interi noiosi pomeriggi
puberali facendo zapping fra i volumi dell’enciclopedia, che volevo diventare
un uomo colto e non erudito. Che è un po’ come fare il salto in alto e mettere
l’asticella a tre metri e vedere di quanto ci passi sotto.
Poi
il dovere mi chiamò. Insulso prodotto del baby boom dei sixties, il diploma di
geometra mi richiamava al minimo studio
per prendersi l’agognata maturità. In quegli anni di follia democratica anche
l’esame di stato degli istituti tecnici assurse a esame di maturità. Follie d’un
tempo che fu.
Andai
quindi a inquinare il mondo universitario fatto fin allora di maturati di liceo
classico o scientifico, noi geometri insieme al giudaismo dei diplomati al
liceo artistico e delle magistrali, ammessi sì allo studio universitario ma previo
esame di idoneità e relativa stella di Davide da portarsi per il primo anno
d’accademia. A noi periti e geometri fu risparmiata, nell’ebbrezza populista,
il segno giallo distintivo della razza inferiore.
Di
passata mi sembra che l’umile maestro elementare, figlio al massimo d’un
ferroviere, andando a insegnare nelle isole dove l’unico abitante era il faro o
sulle montagne, fonte di gozzo e denutrizione, permisero a noi tutti di cullare
il sogno della laurea sebbene progenie di vile lignaggio.
Quando
fui laureando, con un libretto che sfiorava la media del ventinove, solo allora
cominciarono a non chiedermi più che studi avessi fatto prima dell’Olimpo
accademico.
Intanto
però gli anni erano passati e m’ero preso una laurea col massimo dei voti.
D’altra parte c’erano trenta esami e sedici tavole di tesi di progettazione
architettonica, più una relazione e due plastici, che dimostravano, nonostante
la mia subordinata ascendenza, che meritavo di stare a banchetto con gli dei.
Almeno lì, all’Università, se ti facevi il culo i risultati arrivavano e ti
guadagnavi il rispetto dei docenti.
Una
volta finiti gli studi mi si aprì la realtà dell’agognato mondo del lavoro e
della ricerca universitaria. Dove se non ti ricordi che sei giudeo, non ti
preoccupare che qualcuno ci penserà a ricordartelo.
Lo
dico per gli eventuali imbecilli in ascolto: non sono ebreo, è solo una
metafora. Sono un goj, e magari fossi stato ebreo, che forse avrei trovato
qualcuno in più a darmi una mano.
Morale:
tornavo a chiedermi se volevo diventare un uomo colto.
Nel
frattempo ero divenuto un uomo adulto, avevo ventisette anni, e avevo elaborato
da tempo, a differenza dei ventisettenni d’oggi, il distacco dalla tettarella
altrimenti detta ciuccio, che a Milano non vuol dire asino ma appunto
ciucciotto.
Quanto
fossi ignorante me ne rendevo conto, così come me ne rendo conto, ma
necessitavo d’una definizione di cultura e di erudizione. Non potevo che
ricordarmi delle mie esperienze da novellotto, parola che in milanese indica
quei volatili che non sono più pulcini ma non ancora adulti (in dialetto
nuelòtt).
La
lettura dell’enciclopedia significava la presa visione di un quanto di
conoscenza che corrispondeva al sapere necessario e sufficiente per essere
detti colti. Cioè era una questione di asticella che poteva essere messa più su
o più giù seconda delle opportunità. A
esempio in un ambiente di cultura media non aver letto i classici russi non
ostava alla definizione di uomo colto. In un ambiente di razza ariana, che si
annusa spesso e volentieri, era il segno tipico dell’untermensch.
Ero
confuso. Come in tutte le storie di salvazione delle anime pie mi venne in
soccorso la Vergine Maria. Sotto la forma di una nuova libertà: affrancato
dalla schiavitù del libretto potevo, e volevo, leggere solo quello che mi fosse
piaciuto. Alla lettera, potevo cominciare un libro, narrativa o saggistica, e
dire allo scrittore: “ Bello, sei tu che mi devi convincere a leggerti,
altrimenti io ti chiudo il libro sul muso e me ne vado a fare una passeggiata
”.
Dunque
il problema non era più fra me e i classici russi, ma fra i classici russi e me.
Quindi l’imperfetto Gogol mi ha tenuto a leggere il suo “ Le anime morte ”
anche nella seconda parte che è molto più pallosa della prima, ma è
interessante, mentre il perfetto Dostojevskj m’ha fregato una volta sola con “
Delitto e castigo ” assurdo come un libretto d’opera di Verdi e poi stop so, ed
era estate e faceva pure caldo, li mortacci sua.
Altra
precisazione per chi soffre di pruriti virginali: se vi piacciono i classici
russi o tedeschi o italiani o inuit mi va bene, leggete quel che vi pare. La
donna che piace a uno non dice niente all’altro e hanno ragione entrambi. Io
parlo per me e credo d’averne la facoltà.
Poi
ci sono quelli che hanno letto trentamila libri, proprio trentamila non un
numero a caso, e quando li ascolti sparano una cazzata dietro l’altra, ho in
mente filosofi e uomini di cultura molto noti al grande pubblico di cui
ovviamente non faccio il nome (perchè non dispongo di un reddito pari al loro e
sufficiente a sostenere eventuali spese giuridiche).
Allora
esco dalla fase puberale e comprendo che non è il numero di libri letti che fa
l’uomo colto, ma come li si è letti.
C’è
un adagio, molto saggio a mio modo di vedere, che dice che dopo una certa età
non si legge più ma si rilegge.
Io
capii che pur leggendo tutto sarei al massimo diventato un uomo erudito, quello
che io volevo e voglio è provare a essere un uomo colto. Un uomo erudito al
massimo è còlto e fa carriera. Io non sono né colto né còlto ma almeno aspiro a
qualcosa.
Ah,
dimenticavo di dire che per una donna è lo stesso con la differenza che una
donna erudita può risultare per alcuni più sexy, ma anche una rompiballe,
dunque non so se ne valga la pena. Una donna colta va incontro agli stessi
inconvenienti di un uomo.
E
qui arriva la definizione. Una persona erudita sa molte cose ma non è
indipendente nel suo sapere. Una persona colta sa di non esserlo ma denota
un’indipendenza di pensiero.
Oggi
mi dicono che l’università sia un po’ come l’arca di Noè: non importa chi sei,
basta che sei un animale e entri. Cacci un sacco di quattrini e vorrei anche
vedere se non te la danno la laurea. Chiedete a chi ha studiato architettura
fino agli anni ottanta (studiato non frequentato perché c’erano le gnocche di “
Drive in ”) e colui o colei vi diranno che è stata fra le più importanti
esperienze della loro vita, perché ti
smontavano la tua bella testa conformista e t’insegnavano a vedere criticamente
le cose, a capire quante cose può voler dire una linea messa così anziché cosà,
a chiederti come funziona una roba e a cosa ti può servire, se quello che stai
progettando è contraddittorio con quello che hai appena detto di voler fare.
Insomma ci siamo capiti.
Alla
fine il tuo progetto era la tua faccia e non avevi paura di mettercela.
Considerate che l’arma più gentile con cui i docenti ti spiegavano perché il
tuo progetto era sbagliato era il machete. E tu capivi che avevano ragione e te
ne tornavi a casa col “ pirla fra le gambe ”, come dicevamo noi, e mettevi giù
la testa e ricominciavi, per anni e per anni. Finché imparavi a usare tu stesso
il machete prima che lo usassero loro, ma a quel punto avevi sviluppato una
dote di cultura: se una cosa va bene o male, se mi piace o no non me lo deve
dire nessun altro: lo so da me.
So
che chi non ha mai progettato, o dipinto o scolpito o scritto, in una parola
composto nulla pensa che siano parole retoriche, ma chi è passato per la stessa
strada sa che è vero.
Dunque
un libro non va letto o peggio studiato, va vissuto, va mangiato digerito e
cagato, deve diventare una parte di te che ti educa come i genitori o i
fratelli maggiori o una maestra.
Io
da un libro voglio che mi interessi, che mi spinga ad arrivare alla fine e poi
quando è finito rammaricarmi che sia finito. Lo voglio lì vicino a me come il
frigorifero se ho sete o fame. Voglio che mi faccia vivere almeno per il
periodo della lettura nel tempo in cui è stato scritto. Che dopo la mia
prospettiva storica sia cambiata e più chiara. Voglio sapere come è stato
scritto, sia nel senso di come funziona sia nel senso di come viveva l’autore
quando lo componeva.
L’unica
cosa che leggo delle prefazioni dei libri, salvo rari casi e solo dopo che l’ho
letto vergine da ogni condizionamento, è la vita dell’autore. Sono affascinato
dalle vite degli altri, sono i più bei romanzi.
L’ho
citato in un post precedente e vi lascio alcuni versi di Giorgio Caproni che
riassumono un po’ quello che ho detto in questa riflessione a proposito dei
classici e dei libri ‘imprescindibili’ per gli uomini di cultura. Di una certa
cultura, quella dei giornali del controllo massimale, degli intellettuali da
trentamila libri, del conformismo accademico e politico, del “ se dico questo
faccio bella figura ”. Aggiungetevi voi gli altri casi.
Dubbio a posteriori:
i veri grandi poeti
sono i «poeti minori»?
(da: Giorgio
Caproni, “ L’opera in versi ”, Mondadori, Milano, 1998).
Raffaello Sanzio, " La scuola d'Atene ".
Logo del Politecnico di Milano, in cui c'è la Facoltà di Architettura.