Va
bene, lo ammetto: tratterò questo tema un po’ alla rinfusa e vediamo cosa ne
esce.
Mi
riferirò, entrando e uscendone, alla poesia ma in genere all’arte
contemporanea.
Prima
di passare alla letteratura, in modo attivo, e poi alla musica, come semplice appassionato,
mi sono a lungo occupato di arte figurativa: come studente di architettura, poi
come insegnante di architettura e di storia dell’arte, un po’ a tutti i
livelli: da assistente in Facoltà in giù. Finché me l’hanno lasciato fare, ma
questa è un’altra storia.
Allora,
tutti sappiamo che l’arte contemporanea ha come sua connotazione il progressivo
distacco dall’accademia e la nascita delle avanguardie. Da qualche decennio,
almeno nelle arti figurative, è in corso un progressivo ripensamento delle esperienze
avanguardistiche. Dovrei dire sarebbe in corso, poiché non so veramente cosa ne
sia rimasto delle arti: posso affermare che l’architettura così come era intesa
dai tempi delle piramidi fino a un momento degli anni novanta del secolo scorso
non esiste più, è morta almeno per ora. Mi sembra che le altre arti non stiano
meglio, ma facciamo finta che esse siano ancora vive. Da qualche parte lo sono
certamente, io ne lamento la scomparsa nelle università e nella percezione
comune veicolata dai mezzi di (dis)informazione.
Dato
questo consolante quadro d’insieme, facevo giorni fa questa considerazione.
Da
questo autunno ho conosciuto meglio l’opera lirica di Haendel che già
consideravo uno dei più grandi musicisti della storia. Di passaggio dico che
avevo scelto il primo movimento della Royal Fireworks Music come inno della
Libera Associazione della Spada di kenjutsu, e la cosa è tuttora valida.
Sono
giunto alla conclusione che Haendel sia il caposcuola dell’opera lirica così
come essa si è venuta configurando in seguito. Haendel e Bach hanno ‘ inventato
’ la musica classica che ha fatto scuola e canone (in senso artistico, non
musicale) partendo dalla musica tardo rinascimentale e barocca italiana e
francese: Monteverdi, Vivaldi, Lulli (dunque ancora italiana) per ricordare i
più conosciuti. Ritengo Haendel il più grande compositore lirico, insieme a
Mozart, di sempre. E Mozart diviene il grande nel teatro italiano che è quando
capisce che per dire qualcosa di davvero nuovo e allo stesso tempo immortale
non deve seguire ogni moda ma tornare ai grandi maestri del periodo barocco,
Haendel su tutti. Complici i consigli e le partiture della collezione del
barone Gottfried van Swieten, prefetto della Biblioteca di Vienna e suo grande
amico in tutti gli anni da quando Mozart si trasferì a Vienna fino alla morte.
Se uno conosce le opere di Haendel può capire tutta la lirica successiva. E non
mi stupisce che di Haendel si parli poco perché poi si dovrebbe cambiare il
giudizio sui compositori ottocenteschi e successivi. Ma questo è un argomento
tabù che scatenerebbe l’ira dell’appassionato rossiniano, verdiano, wagneriano
e compagnia più o meno cantante. Ma sai quanto me ne frega.
Il
rapporto fra Haendel e Mozart mi ha confermato nella decisione, peraltro subito
dettata dal semplice ascolto, che Mozart sia da annoverare come appartenente
alla musica tardo barocca, l’ultimo forse, e che non abbia nulla in comune con
Beethoven. E questo scatenerebbe le ire dei Conservatòri, ma sai quanto me ne
frega. E anche dei massoni ma pazienza.
Il
nostro Haendel naturale sarebbe stato Pergolesi che però, per sua e nostra
sfortuna, è morto a soli ventisei anni.
Opinione
assolutamente personale di un analfabeta musicale, nel senso che non possiedo
nessun titolo di studio cosiddetto abilitante, ma...
Cosa
voglio insinuare con queste considerazioni? Dico che da Monteverdi, uomo che si
potrebbe annoverare come ancora rinascimentale o nella transizione fra tardo
Rinascimento e inizi del Barocco, passando per Lulli, Vivaldi, Pachelbel, Bach,
Haendel, e poi tutti quelli che anche con fatica hanno cercato di interpretare
in modo inedito la musica che ereditarono: Pergolesi, Hasse, Piccinni, il
sopravvalutatissimo Gluck, Paisiello, Salieri per dire solo quelli che mi vengono
in mente adesso, fino al grande Wolfgang Amadè (non Amadeus!) Mozart, hanno
lavorato all’interno di un’esperienza che si può definire comune, con tutte le
differenze che ci sono fra epoche e personalità diverse. E non è solo questione
di temperamento del clavicembalo e scale equabili. Ma persino negli altri, pur
nel disastro lirico successivo, ogni tanto ci scappa qualche riferimento ai
maestri e non solo a Mozart (troppo facile... o troppo difficile?). Almeno fino
a Puccini ogni tanto si trova qualcosa di semi vivaldiano o semi haendeliano,
in dosi omeopatiche ovviamente.
Sarà
un caso che mentre ciò succede nascono le avanguardie in tutte le altre arti?
È indubbio che ogni arte ha il suo
percorso e ho usato la musica per seguire il filo dei pensieri, ma a un certo
punto la deriva accademica si è resa insostenibile. Ma perché la tradizione non
aveva più niente da dire o per il traviamento dalla linea di demarcazione sulla
quale essa tradizione aveva proceduto?
Sulla
musica ho già detto che sono semplici impressioni di un appassionato, ma
sull’architettura, a cui ho dato gli anni migliori, come si dice, della mia
vita (inutilmente sembra) sono sicuro che sia stato per il secondo motivo, la
famosa “seconda che hai detto”.
Riassunto:
la storia dell’arte si divide in periodi di stile o canone e periodi di
avanguardia.
Nei
primi si lavora su alcuni punti condivisi per giungere a una forma, il canone
appunto, che sembra intoccabile e non più operabile. Nei secondi si va alla
ricerca di nuovi punti condivisibili, forse condivisibili.
La
questione non è stabilire che un periodo sia meglio di un altro: è il normale
avvicendarsi dell’evoluzione dell’arte.
I
problemi nascono quando l’intoccabilità del canone è presa alla lettera, un caso
di scuola palmare è lo sviluppo della tipologia del tempio nella Grecia
classica: da anàtema per gli Dei a forma in tutto completata (addirittura in
due canoni: dorico e ionico) nel giro di un secolo.
Ovvero
quando lo scatenarsi dell’energia avanguardistica non approda a nessun punto condiviso
e si auto condanna a una avanguardia parossistica e perenne.
Be’
noi siamo ancora in questa fase coll’esito, anche etimologico, della morte
dell’arte a disposizione di vari altri interessi non solo economici, ma anzi
direi soprattutto politici, come sempre. Questi interessi sono la cicuta che le
arti stanno più o meno consapevolmente o inconsapevolmente prendendo, piamente
o empiamente prendendo. Da ciò si deduce che l’arte non è socratica, cioè non è
al momento cosciente.
Del
resto, quante correnti di pittura, scultura, poesia, architettura, musica
{classica[?] jazz, pop (musica?), rock et alia...} sono esistite ed esistono
ciascuna per proprio conto, se non si dicono i morti a vicenda?
Se
nei periodi di avanguardia si esprime la ribellione verso ogni cosa che paia
possa limitare l’espressione artistica e, ripeto, non è il caso di stabilire se
ciò sia un bene o un male, è semplicemente necessario in quel momento, credo
però che lo stabilirsi in una dimensione di sperimentazione incontrollata e non
approfondita finisca per diventare una specie di capriccio infantile, per cui
si dice no a tutto, e un trabocchetto per cui, se è lecito fare ogni cosa ci
sembri innovativa, se ne deduce che ogni cosa, per definizione, va bene.
Oppure
si stabiliscono dei paradigmi di valutazione assolutamente estemporanei e
arbitrari. O addirittura si possa verificare il paradosso che potendo fare
tutto si decida di darsi delle regole le più rigide possibile. Quest’ultimo
caso si capisce meglio riferendosi alle arti figurative: scelta di soli volumi
puri in architettura oppure astrattismo iperconcettuale in pittura.
In
questa temperie di incertezza hanno buon gioco la decrescita culturale, soprattutto
della propria capacità critica per cui qualcosa è bello non per nostra
ponderata adesione ma perché alcuni critici o giornali dicono che quello è un
grande artista o un sommo poeta, che quello è il modo giusto di fare arte. Così
facendo l’individuo si accostuma a un conformismo che gli sarebbe di fatto
completamente estraneo, ma che assorbe in un anelito di adeguamento.
Attenzione:
questo non fa nascere solo dei sensi di colpa per la propria ignoranza, anche
in questo si diviene antisocratici perché l’uomo intelligente è quello che sa
quello che ignora e quali sono i suoi limiti culturali e cerca di porvi rimedio
non quello che crede di sapere perché sa quello che chi comanda ha deciso che
deve conoscere e apprezzare, ma appunto è un pericolo per la libertà di ognuno.
E intendo libertà culturale sì ma soprattutto libertà politica, libertà in una
parola.
Una
definizione di intelligenza abbastanza accettata è fare la cosa migliore in un
dato contesto. Se si annulla il contesto di riferimento per ribellismo da
frustrazione viscerale non se ne esce più, come temo faccia molta parte
dell’arte contemporanea. Se si considera arte ciò che ci viene più facile non
usciremo mai da una dimensione adolescenziale anche se faremo cose molto
complesse, poiché non saremo maturi e consapevoli.
Ovviamente
non sta a nessuno oltre all’artista stabilire in quale contesto decidere di
agire con la propria ricerca, ma occorre ricordarsi che, se non si deve passare
un esame, esiste sempre nel lettore la possibilità di rifiutare il contesto e
la produzione, e ciò non solo è perfettamente legittimo ma anche auspicabile se
non si vuole un mondo di zombie decerebrati e assuefatti a ogni cosa e in
attesa del campanello pavloviano per farsi venir fame.
Credo
sia giunta l’ora di guardare allo spirito avanguardistico come a qualcosa che
punti davvero a una ridefinizione dell’arte e non solo alla distruzione del
passato, che porti al superamento di un’originalità inedita che ormai si vede
da decenni (rendiamocene conto!) e già si sta trasformando in canone di
conformismo rivoluzionario, in luogo comune, in posizione di rendita.
Guardate
che è l’unico modo perché ciascuno possa avere uno spazio nell’arte e non solo
quelli col cognome giusto o gli amici degli amici. Avere un terreno condiviso
di confronto è l’unica garanzia ancora possibile perché le differenze, le
originalità in un parola i meriti possano emergere, l’alternativa è il
benpensiero del politicamente corretto, dell’economicamente etero diretto (in
soldoni: che fa comodo a chi ci guadagna), della delega delle proprie facoltà
di scelta.