domenica 24 settembre 2017

Fall

Comincia, finalmente, la più bella stagione dell'anno!
Dopo un'estate lunghissima e calda.
Le temperature estive non hanno raggiunto, almeno qui a Milano, delle vette estreme, ma è stato caldo da metà maggio a tutto agosto, con solo due brevi pause di pochi giorni.
La più bella battuta dell'estate è apparsa in un articolo di un giornale, non ricordo quale, e diceva all'incirca così: "A Ferrara percepiti 49°, anche se il termometro ne segnava solo 33°". Ogni commento, a parte una risata, è superfluo.
Ormai il delirio dei media di regime non ha più rossori. E non solo sul clima...

Ma infine ne siamo usciti e ci aspetta la stagione delle feste, del vino nuovo, dei bei paciarini (ghiottoneria, per i diversamente milanesi) che ci porteranno al tripudio del Natale e del Carnevale. Delle notti precoci e dei vespri più belli di tutto l'anno. Degli alberi in abito di gala, dell'odore della terra umida e, con un po' di fortuna, delle nevicate di Sant'Ambrogio e della Madonna di dicembre (ricordatevi la casöla, se siete veri osservanti della fede meneghina).

Per augurarvi un buon autunno vi ho preparato un video, con immagini appropriate, di un mio mito canoro, per me la voce più bella non lirica: la grande, indimenticabile e indimenticata Ella Fitzgerald.
La canzone è uno standard del 1931 incisa da Ella Fitzgerald e Louis Armstrong negli anni '50: “Dream a little dream of me”.
Ascoltatevi questa celeberrima canzone di questo duetto epico.
Qui si sente la voce meravigliosa di Ella, cui ho dedicato una poesia, e Armstrong che dal vivo era più intonato con la sua vociaccia, dal mitico 'vibrato bronchiale', che non con la tromba.
Louis era comunque un bel tipo simpatico, il grande soc'mel... o qualcosa del genere... gran musicista in senso ampio.
Ella era come Angelica: un paradiso in terra.
Ci tengo a dire che la prima immagine nel video è una foto della Darsena sul Naviglio Pavese con la nebbia e che quegli uccelli che volano sono dei gabbiani. Sì, li abbiamo anche noi qui a Milano, lo sapevate? Sono più piccoli di quelli di mare, ovviamente, ma abbiamo anche noi questi uccelli magnifici (a cui ho dedicato una poesia...). Ve l'ho detto che quando venite a Milano non dovete stare sempre e solo in Piazza del Duomo.

Fra l'altro, visto che l'autunno è la stagione del ricordo degli antenati (il Capodanno celtico Samhain) mi concederò un ricordo personale. Di questa canzone ho ancora il disco a 78 giri dei miei genitori e sono abbastanza vecchio da aver posseduto un giradischi che aveva anche la velocità di 78 giri, oltre ai soliti 45 e 33, per cui ho potuto sentirmelo fin dall'infanzia. Per me era una scoperta di una voce meravigliosa mentre per loro era stato un protagonista di feste con gli amici nella felicità della fine della guerra.

Quando chiedevo a mia madre quale fosse stato il periodo più felice della sua vita, riconosceva che negli anni '60 o '70 aveva ottenuto il maggior benessere materiale, ma gli anni più belli erano quelli subito dopo la fine della guerra. Così mi diceva che la moda più elegante era quella degli anni '50, e come aveva ragione!
Fra l'altro quest'anno, il 26 ottobre, saranno vent'anni che la mamma è andata ai kami, ma io non sono un seguace del culto dei morti, preferisco ricordare il compleanno semmai. La mamma Fernanda nacque il 19 gennaio del 1928, il papà Daniele, col quale sono andato assai meno d'accordo ma ormai è acqua passata, il 24 agosto del 1929, lui è morto il 29 dicembre del 2010. Io, per esempio, in contrasto col mitico Fabrizio de Andrè, vorrei morire di maggio: così mi faccio tutta la primavera e mi risparmio l'ultima estate, lì sarei sicuro di stare fresco.
I miei erano anche due bei ragazzetti ve'! Qua ci avevano un po' più di vent'anni, da fidanzati insomma.
La mamma e il papà da sgarzoli
Niente ricordi tristi dunque, viva l'autunno dove cade quel che deve cadere, le foglie, il tramonto, la nebbia... anche se non sempre accade quel che deve accadere, e dove anche la memoria ha da essere dolce.

p.s. vi consiglio caldamente di leggere il post sul Novocomum di Terragni: è un'opera d'arte anche se è un'architettura moderna. Poi non fate che non ve l'ho detto...

domenica 17 settembre 2017

Leggere un'opera d'arte 4: il Novocomum

Una delle accuse che sono mosse al Razionalismo è di essere stato indifferente al rapporto fra le nuove architetture e l'esistente. Vi ricorderete, cari brutti anatroccoli del mio cuore, che ho già avuto modo di sottolineare l'importanza nella composizione architettonica, del rapporto con la storia e con il costruito. L'ho fatto, cari miei anseriformi, nei post sull'architettura della poesia.
Accusa non senza fondamento negli eventi, se non che la poetica del Razionalismo e del Movimento Moderno in generale, in relazione a questo aspetto, era quella della rottura con la storia. Come spesso fecero tutte le avanguardie artistiche del '900.
La discontinuità storica, approccio moderno allo studio della storia che sostituisce quello più classico del determinismo storico, per cui ciò che è successo ha sempre un senso rispetto a quello che succederà, anche in architettura non genera per forza una frattura storica. A volte successe, fra Gotico e Rinascimento per esempio, ma le modificazioni anticlassiche del Barocco hanno senza dubbio segnato una discontinuità con il passato, ma non una separazione da esso che è stato invece ricodificato e inglobato.
Il Movimento Moderno invece ha esplicitato questa soluzione di continuità con la storia nella sua poetica, oltre che nella prassi. Ciò è anche chiaro nella sua morfogenesi: il concetto di funzione e il rifiuto della decorazione, quindi anche degli stilemi di derivazione storica.
Il Razionalismo ha esacerbato questa posizione con le sue istanze di purismo. Il problema si pone su due diverse scale. La prima la possiamo riassumere con questo concetto: le nuove tecniche costruttive mutuate dall'ingegneria non hanno sostituito, nella memoria collettiva e anche, se mi passate il termine, nella coscienza sentimentale dell'architettura, la colonna. La seconda riguarda invece la coesistenza fra le architetture moderne e le preesistenze, sia nel senso del tessuto urbano, sia in quello del singolo edificio o complesso di edifici storici.
Ma appunto la risposta del modernismo è sempre stata quella dell'indifferenza con la continuità storica. Insomma una specie di cane che si morde la coda.
A suffragio di questa scelta drastica il Movimento Moderno, ha analizzato i cambiamenti sociali e ne ha ipotizzati di ulteriori politici, i quali avrebbero comportato un distacco progressivo e ineluttabile con il passato, nella vita stessa degli individui. Naturalmente l'architettura non poteva non tenere conto di queste evenienze. Cambiamenti sia nella cultura ideale: pensiero razionale, approccio scientifico, atteggiamento positivista, rivolgimenti politici (non necessariamente, come vedremo anche in questo post, ideologie di sinistra, pure se in massima parte la propensione era quella), sia nella cultura materiale: industrializzazione, risoluzione di problemi urbani endemici come la carenza di abitazioni, riorganizzazione del tempo in base ai moderni criteri di produzione dei beni, nuovi servizi sociali.
Una lettura del MM al di fuori di queste premesse, sempre onestamente dichiarate, è priva di ogni fattualità logica. Questo va tenuto sempre presente.
Altro conto sono i risultati, funzionali ed estetici, e l'avverarsi delle premesse politiche, economiche e sociali che stavano alla base della poetica modernista e soprattutto razionalista.
Per farla breve, perché mi sto accorgendo che sta diventando un post per addetti ai lavori, e per certi versi è inevitabile, le cose non sono andate esattamente come gli architetti moderni avevano previsto, pensato e sperato e la velocità degli eventi ha superato la loro capacità, che è soprattutto la capacità della società nella quale hanno agito, di stargli dietro. L'esempio delle periferie è il più evidente. Lo scollamento fra approccio modernista e crescita quantitativa e qualitativa delle città s'è a un certo punto fatto insanabile e per molti versi drammatico.
Fatto 'sto pistolotto introduttivo, che però ci voleva, e del quale, anatidi amatissimi, non avrete capito una beata mazza a meno che siate degli architetti coi capelli almeno brizzolati, o degli storici dell'arte, ma solo se intelligenti. Detto questo, dicevo, scendiamo sul nostro esempio di lettura di un'opera d'arte: il Novocomum di Giuseppe Terragni a Como, del 1929 perché questo è uno dei casi in cui il razionalismo si pone un rapporto con la storia.

Giuseppe Terragni nacque a Meda, in Provincia di Milano, il 18 di aprile 1904 e morì, a seguito di ferite ricevute in guerra, a Como il 19 luglio del 1943. Era il fratello del podestà di Como il che gli procurò il modo di fare parecchi lavori. Terragni è uno dei maggiori esponenti del Razionalismo, il più grande in Italia con Adalberto Libera a mio parere. Dico questo di Terragni sia per la qualità eccelsa dei suoi progetti sia per la coerenza del suo linguaggio con i presupposti del Razionalismo.
A l'era anca un bel fiulett.
Giuseppe Terragni

Uno dei suoi primi lavori fu proprio l'edificio per abitazioni detto Novocomum.
Il Novocomum

Osservate la foto. Vedete che il nuovo edificio di Terragni confina con uno dei lati corti a un preesistente edificio, un discreto palazzo eclettico, interessante soprattutto per i bow windows e l'arioso loggiato a coronamento. Dovete omettere mentalmente gli ultimi due piani che sono una superfetazione successiva. Notate come la differenza dei linguaggi non potrebbe essere più marcata, come gli stili non potrebbero essere più distanti. Eppure si percepisce un senso di integrazione fra i due, una maggiore armonizzazione di quando si scontrano linguaggio storico e moderno.
Questa è la planimetria in cui ho evidenziato nel rettangolo rosso la parte di facciata in primo piano nella foto e col rettangolo grigio la posizione dell'edificio esistente
Novocomum - Planimetria

Adesso ripropongo la stessa foto in cui ho messo in relazione alcune scelte compositive di Terragni con gli elementi di linguaggio preesistenti. A colore corrisponde colore.

Cominciamo l'analisi.
In rosso sono evidenziati i rispettivi marcapiani dei solai, al primo e all'ultimo sono coincidenti negli altri corrisponde la quota, uno capita, per puro culo, sulla fuga del bugnato, ma è un caso. Da notare che i marcapiani di Terragni sono le solette dei balconi poiché non ne esistono di altri tipi in facciata. Di solito è sconsigliabile, in linea di larghissima massima, mettere dei vuoti o arretramenti di filo all'inizio dell'edificio per non creare quello che si definisce 'un angolo debole', ma in questo caso la soluzione appare molto efficace e corretta.
In giallo si vede che la proporzione verticale delle finestre dell'edificio eclettico diviene un modulo di una delle finestre orizzontali che sono uno degli elementi connotativi e preferiti dell'architettura moderna. La fenêtre en longueur teorizzata da Le Corbusier, per capirci. Sono preferite per una miglior illuminazione degli ambienti e perché trasmettono un senso di stabilità e armonia, facendo al contempo prevalere i vuoti sui pieni, e possono eventualmente essere sfruttate per evidenziare le strutture.
Nell'insieme (in viola) le finestre orizzontali riprendono il vuoto del loggiato di coronamento nel palazzo eclettico. Da notare che nell'angolo in aggetto una finestra continua, una fenêtre en longueur vera e propria, evidenzia il pilastro e proprio l'aggetto compensa l'angolo debole. Devo dire che in ogni caso questo stilema non è dei miei preferiti, anche se lo fa un Terragni.
Nei riquadri azzurri la forma tonda dei bow windows e dei balconi è ripresa negli ambienti circolari e nella stondatura dell'angolo dell'edificio razionalista. Per esempio si vede che la finestra in lunghezza dà molto migliori risultati sul curvo che sull'angolo.
Vedete quante attenzioni per un edificio preesistente che non è certo un capolavoro. E dunque se non è la qualità dell'esistente a imporsi, è l'attenzione che Terragni pone nel risolvere il rapporto di contatto con l'esistente a mettersi in mostra. Qualche testa di cazzo definirebbe questa attenzione facciatismo ma ne abbiamo già parlato sempre nei post sull'architettura della poesia.
La cosa bella è che queste soluzioni permettono a Terragni di costruire poi l'intera facciata del suo edificio senza abiurare di una virgola alla poetica razionalista, per esempio quella di variare il tipo di apertura a seconda della funzione del locale retrostante. E qui l'attenzione, e la preoccupazione di un giovanissimo Terragni, è soprattutto quella di essere convincente in facciata, la planimetria non offre grandi spunti di genio modernista. A questo proposito ho evidenziato in pianta, nel rettangolo rosso scuro, la ripresa sul lato corto opposto di elementi stondati in funzione strutturale.
Spero di essere riuscito a far comprendere quante attenzioni deve avere la composizione architettonica moderna anche se non fa uso di stilemi storici.
E spero che abbiate capito, miei anatinuli, che lezioni di composizione architettonica come questa non ve le farebbe chiunque.
A proposito: guardate che belli i balconi del Novocomum. La facciata lunga è composta da quattro fasce in sequenza. Il filo del piano terra, arretrato rispetto al punto fisso, sopra c'è un volume aggettante, poi due piani di vuoto coi balconi e l'ultimo a filo che culmina con gli aggetti d'angolo. Tutto dà una ardita plasticità al volume complessivo dell'edificio che considera, ancora una volta ma la supera abbondantemente, la facciata ampiamente scultorea dell'edificio eclettico. Direi che non è improprio vedere il respiro ampio e un richiamo a Palazzo Farnese, di cui ho appena parlato (il primo post sulla composizione architettonica).
Ho detto sopra che Terragni è il più grande architetto razionalista italiano con Adalberto Libera: guardate questi straordinari balconcini nei tre villini di Ostia.

Tenete presente che né per Terragni a Como né per Libera a Ostia si tratta di architettura monumentale ma di normali progetti per residenza.
Carissimi anatroccoli, capite cosa vuol dire essere un grande architetto?

domenica 3 settembre 2017

Properzio o anti perzio?

Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,
contactum nullis ante cupidinibus.

Al netto della traduzione che non posso valutare, non conoscendo il latino, e che mi lascia sempre un po' stranito, ho letto le elegie di Properzio, poeta contemporaneo di Ottaviano Augusto e del giro di Mecenate. Le ho lette da “Properzio Elegie”, Mursia editore, 1992, Milano.
Le traduzioni saranno senz'altro giuste ma ne ho trovate alcune, non questa, in cui a un verso latino ne corrispondevano due in italiano e, a me che non sono un linguista, sembra strano appunto che una lingua così scabra e sintetica come il latino si debba tradurre con un numero doppio di parole. Tutto questo per dire che l'impressione che la poesia di Properzio mi ha fatto, come quella di qualunque altro poeta latino, è mediata dalle traduzioni sempre in bilico fra resa lirica e correttezza linguistica, per i colleghi che giudicano e gli studenti che imparano.

Properzio scrive in distici elegiaci ossia versi alternati di un esametro e un pentametro.
Dico questo perché mi appare indubbio il seguente passaggio metrico, che non è sfoggio di cultura, sapete che non ho, per fortuna, cultura letteraria, ma tornerà utile nel discorso.
Esametro: _ _ _ _ _ _ _ _ _ u u _ _ od _u
oppure: _ u u _u u _ u u _ u u _ u u _ _ od _ u
l'accento cade sulla prima lunga, ma non ci interessa.
Dunque il pentametro è _ _ _ _ _ _ _ u u _ _ od _u
oppure _u u _ u u _ u u _ u u _ _ od _ u .
L'esametro conta da 13 a 17 sillabe, il pentametro da 11 a 15. Se si prescinde dagli accenti tonali, perché siamo in una lingua tonica come l'italiano, e si considera che anche in greco e latino due brevi contano come una lunga, abbiamo la nascita ufficiale dell'endecasillabo come misura della poesia amorosa: fin amor provenzale e amor cortese italiano. Ritengo che Properzio conti molto di più di quello che gli accademici dicono sull'influsso che ebbe nella poesia cortese e amorosa.

Conosco le composizioni di Ovidio che vertono sullo stesso tema amoroso di quelle di Properzio e la differenza fra le due personalità appare subito evidentissima.
Ovidio fu di famiglia di ordine cavalleresco, di Sulmona, fece studi di legge a Roma ma poi si dedicò alla poesia amorosa: il Dio Amore gli fece perdere un piede e i suoi esametri divennero pentametri, considerati i più adatti per la lirica erotica. Ovidio era uomo di mondo, elegante, colto, con una straordinaria facilità nell'improvvisazione versificatoria che lo rese famoso e amatissimo dalle donne. Il suo rapporto con le donne era facile, immediato, sensuale. Potremmo dire che fu un Casanova dei suoi tempi. Conosceva a tal punto il mondo femminile da dare consigli agli amanti per conquistarle o alle donne per essere conquistate.
Sesto Aurelio Properzio era di buona famiglia, di fisico gracile, non bello, e si recò a Roma per spirito quasi ribelle alla sua nascita provinciale, era di Assisi, per vivere il torbido e attraente mondo degli amorazzi dell'Urbe, fra matrone allupate e cortigiane di ogni grado.
Ah, ovviamente c'era sempre una legge di Augusto per la morale e la difesa dei valori della famiglia, e lo fecero anche gli altri imperatori, ma se ne fregavano tutti.
Ovidio cadde infine in disgrazia presso il Cesare ma per questioni politiche, era nel partito avverso a Mecenate. E finì in esilio sul Mar Nero.
Quanto al nostro Properzio, un bel dì, anzi probabilmente una bella sera, quando era già un po' conosciuto come poeta di belle speranze, fu avvicinato da una cortigiana d'una decina d'anni più matura, lui era ventenne o poco più, che gli apparve bella e affascinante come nessun'altra soprattutto perché fra tanti possibili scelse lui come suo campione di poesia. Il suo nome era Cinzia. Nome d'arte o di poesia, ma è identificata con una certa Hostia che attesterebbe, secondo gli esperti, che era una romana de Roma.
Cinzia viveva nella famosa e malfamata Suburra, ma era una meretrice indipendente e agiata.
Fu subito amore travolgente in cui si intuisce che lui cercava una donna un po' dominante, quella che in gergo si chiama la nave scuola, e lei se lo rigirava ad libitum.
Ora qui si apre la parentesi d'obbligo se queste donne ispiratrici d'amore e di versi esistessero davvero e fossero come i poeti le cantarono, ma noi facciamo finta che sì. Lo faccio notare perché dopo aver pubblicato il suo primo libro, dedicato a Cinzia, Properzio si lamenta che ci ha tutti i cazzi suoi in piazza. Allora viene il dubbio o sull'invenzione oppure, anzi meglio da un punto di vista drammaturgico, dell'esistenza di un gossip da cui sia lei sia lui traevano popolarità. E poi è più bello pensare che fosse tutto vero, o no?
Comunque egli continua a poetare sull'amore che lo lega alla sua Cinzia, amore che lo avvince e che lo fa soffrire, perché lei faceva il mestiere suo e delle volte era, diciamo così, occupata negli affari e rimandava indietro Properzio solo soletto e sconsolato.
Ma lui elabora un concetto d'amore in cui anche la sofferenza fa parte della felicità di una relazione, a volte frustrante ma che vale la pena di essere vissuta.
Insomma la risposta al titolo del post è senza ombra di dubbio: Pro perzio! Ci anticipa tutti i nostri struggimenti sentimentali, le luci e le ombre di una relazione amorosa, gli aspetti esotici dell'erotismo, come un Flaubert o un Prevert.
La sua poesia, complice anche una traduzione che ne coglie questo aspetto e forse lo modernizza, è intrisa di romanticismo e di esistenzialismo e uso questi due sostantivi perché sono i più indicati. La sua vena è tanto più ricca quanto più è immerso nel turbine dei sentimenti che lo legano alla sua Cinzia. Quanto più la sua vita si identifica con il senso di amore assoluto, nelle sue forme rigeneratrici e distruttive. Nell'alternanza fra felicità e abbandono.
Cinthya prima fuit, Cinthya finis erit” (I, 12): “Cinzia fu la prima, Cinzia sarà l'ultima”.
Cinzia morirà ancora giovane, poco prima di Properzio che ebbe vita assai breve morendo a soli trentaquattro anni o giù di lì (le date non sono mai sicure, lo sapete).
Al buon Properzio scassavano in continuazione i coglioni perché scrivesse versi d'epica, quelli che lo avrebbero consacrato come poeta. La sua risposta fu sempre che lui sapeva scrivere solo d'amore e dell'amore per Cinzia. E resisteva a due tipini come Ottaviano e Mecenate, l'imperatore e il suo ministro della propaganda, non proprio due candide colombe. Anche quando, dopo la morte di Cinzia, si decide a scrivere il suo quarto libro, produce una piccola storia di Roma e dei suoi uomini migliori, ma non abbandona mai il tono semplice, confidenziale, verrebbe da dire affettuoso se non fosse che non c'è posto per l'affetto nella storia romana.
Un altro punto sul quale nemmeno il nostro eroe non poté farci nulla fu l'obbligo, per non apparire un burino, di mettere citazioni di miti. Ho già detto che 'sta storia dei miti obbligatori e delle vestigia romane et cetera mi annoia in modo particolare, nei poeti latini e in generale.
Properzio ogni tanto li deve mettere ma sembra lo faccia di malavoglia, come se fosse riluttante a interrompere lo sfogo interiore dei suoi sentimenti amorosi.

Concludo, a proposito di traduzioni dal latino, con tre possibili dell'incipit (I,1-2) dell'opera:

Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,
contactum nullis ante cupidinibus.

La prima è tratta dall'edizione che ho letto:

Cinzia, con gli occhi d'incanto, d'amor me folle travolse
né mai, prima di lei, altro ardor m'avea preso.

La seconda e la terza l'ho trovate in rete:

Cinzia per prima mi prese, perdutamente innamorato, coi suoi occhi,
mai toccato prima dalla passione.

Cinzia per prima m’irretì, sventurato, con i suoi dolci occhi,
quand’ero ancora intatto dai desideri della passione.

La quarta è una mia proposta:

Cinzia per prima suo, me misero, mi prese cogli occhi,
nessuno mi toccò prima di passione.

Vale la pena concludere ricordando che la cosiddetta pronuncia restituta ricostruita dai linguisti secondo quella classica vera, dà una diversa pronuncia al latino, così come noi siamo abituati, e questa pronuncia sta prendendo sempre più piede. Così il nome del nostro sarebbe da pronunciare, seppure italianizzato, Sesto Aurelio Propertio, e poi Ottauiano, Maekenate, Ouidio, Kaesare ecc...
Il primo verso suonerebbe:

Künthia prima suis miserum me kepit okellis,
kontactum nullis ante kupidinibus.

Si nota subito una allitterazione del suono k all'inizio e alla fine dei versi del distico.

Philippe Parrot - l'elegia